Un anno è passato da quando in Trentino si tolse la vita una docente pensionata di 63 anni. Aveva acquistato il “kit per il suicidio” su internet. Il venditore, un canadese di 57 anni, rischia ora l’ergastolo nel suo Paese, perché accusato di aver indotto o facilitato decine di suicidi qua e là per il pianeta.
Nel web chiunque può trovare di tutto: fatto già gravissimo di per sé. Se poi in quel chiunque son compresi anche bambini e adolescenti, incollati “h24” ai propri smartphone, non è difficile comprendere il pericolo che tale situazione comporta.
Quei genitori che regalano, giulivi e orgogliosi, i “device” ai propri figli di sette anni (o meno) non sono consapevoli dell’errore che compiono: rischioso come consegnare un bimbo le chiavi di una Ferrari.
I risultati si vedono. Quand’anche non considerassimo i danni muscoloscheletrici, psichici e sociali della dipendenza da smartphone, resterebbero gli orrori cui i giovanissimi sono esposti (mentre i genitori, ignari, fissano il proprio dispositivo, convinti che tutto sia a posto perché il pargolo fissa un altro schermo). Come minimo, i fanciulli faranno conoscenza diretta con le infinite declinazioni della pornografia. Che sarebbe il meno.
Esperienze ben più scioccanti li attendono. Girano in rete video di ragazze bruciate vive, di animali seviziati, di violenze di ogni tipo: roba da scioccare un tagliagole incallito, figurarsi un dodicenne. Poi ci meravigliamo della violenza giovanile, dell’assuefazione all’aggressività, dell’indifferenza, freddezza, indolenza, apatia di tanti giovani?
Da anni si parla delle challenge, le assurde sfide — spesso con esiti tragici — cui tanti adolescenti si sottopongono per ottenere like e visibilità in rete: anche La Tecnica se n’è occupata spesso.
Tutto ciò non dona felicità e gioia di vivere alle generazioni più recenti (in un Paese da decenni a crescita demografica zero). L’amore per la vita è sostituito da noia, aggressività, competitività, reificazione — e commercializzazione — di ogni essere vivente; con quel che ne consegue: l’attrazione per la morte. Basti vedere la diffusione di teschi umani “decorativi” sulle t-shirt, sugli orecchini, sui bracciali, sugli zaini, sulle collane, nei tatuaggi; o lo straordinario successo e diffusione della festa anglosassone di Halloween. Sintomi, tutti, della specie di necrofilia dilagante.
Tutto ciò è naturale e inevitabile? O è tipico di alcuni momenti storici e di alcune società (e dunque evitabile e modificabile?)
Nella sua “Anatomia della distruttività umana” (1973), il grande psicoanalista e filosofo Erich Fromm scriveva: «L’uomo ha bisogno di un sistema sociale all’interno del quale occupare il proprio posto e vivere, con gli altri, rapporti relativamente stabili e sostenuti da valori e idee generalmente accettati. Invece, nella moderna società industriale, sono proprio scomparse le tradizioni, i valori comuni e i legami sociali personali, genuini con gli altri. L’uomo-massa moderno è solo e isolato, anche se fa parte di una folla; non ha convinzioni da dividere con gli altri, solo slogan e ideologie che ricava dai mezzi di comunicazione.
È diventato un a-tomo (l’equivalente greco di “in-dividuo” = indivisibile), che con gli altri ha in comune soltanto interessi, spesso antagonistici, e la preoccupazione dei quattrini. Emile Durkheim, che definì questo fenomeno “anomia”, scoprì che si trattava della principale causa del suicidio, in crescendo con l’affermarsi dell’industrializzazione. Col termine “anomia” alludeva alla distruzione di tutti i legami sociali tradizionali, dovuta al fatto che ogni organizzazione veramente collettiva era stata subordinata allo Stato, e ogni forma di genuina vita sociale era stata annientata. Secondo la sua visione, la gente che vive nei moderni stati politici è “un pulviscolo disorganizzato di individui”. Un altro maestro della sociologia, F. Tönnies, intraprese un’analisi analoga delle società moderne, operando una distinzione fra la “comunità” (Gemeinshaft) tradizionale e la società moderna (Gesellschaft) in cui sono scomparsi tutti i genuini legami sociali».
Mezzo secolo dopo la pubblicazione di queste parole, tutto è precipitato ancor più nella direzione messa in luce da Fromm. Siamo tutti sempre più soli: e sempre più soli sono i ragazzi e le ragazze. Le persone — subordinate, più che allo Stato, alla logica del profitto e del mercato — non guardano più un paesaggio, non guardano gli altri negli occhi, non guardano coloro che amano, non guardano l’ostacolo davanti a sé: devono controllare compulsivamente e ossessivamente lo schermo del telefono.
Tutto ciò non ci rende felici. Tutt’altro. I giovanissimi non ne sono consapevoli, né potrebbero esserlo: sono nati in un mondo che era già così. Non hanno termini di paragone. Non sanno che il mondo prima era diverso, che potrebbe essere diverso, migliore, più accogliente, più umano. Sono — ma non lo sanno — ridotti a consumatori passivi, strumenti di produzione dei miliardi accumulati dagli azionisti di Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft e compagnia bella. Sarebbe dovere degli adulti esserne coscienti e porvi rimedio.
Per questo non possiamo accettare che la Scuola si accodi all’andazzo globale, diventandone complice. La Scuola è e deve restare il luogo dove viene insegnato (e si impara ricercare) il vero, il bello, il giusto: ciò che, insomma, ci rende umani. La Scuola deve restare il luogo in cui si prepara il mondo di domani, e lo si prepara migliore. Non diventare l’edificio in cui si allevano robot, macchine umane perpetuatrici dell’esistente.
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