Pubblichiamo il contributo di uno studente che riflette sulla figura di Dante e che sperava nella celebrazione del Dantedì del 25 marzo. Purtroppo, come sappiamo, l’iniziativa non si è svolta come da programma a causa del covid.
Seppure in maniera decisamente alternativa, non di certo secondo i preparativi, le attese e i desideri dei (forse pochi) intenditori che a distanza di secoli ancora riconoscono la grandezza del nostro Poeta e riescono ad emozionarsi alla lettura di quei suoi versi sublimi e irripetibili, lo scorso 25 marzo si è celebrato il primo Dantedì della storia.
Un modo per ricordare attivamente il simbolo della cultura e della lingua italiana, ripercorrendo le tappe della sua esistenza e assaporando il frutto della sua genialità sempre attuale.
Sintesi della cultura medievale e fondamento dell’Umanesimo, il genio dantesco ha saputo spaziare tra una serie di temi e forme, facendo sì che la sua esperienza (di poeta e uomo medievale insieme) fosse all’insegna di una ricchezza rara e difficilmente riproponibile da altri. La celebrazione d’un amore che è percorso spirituale, nel momento in cui riesce a divincolarsi dalla carnalità e a protendersi verso il cielo, facendo della giovane Beatrice, fiore reciso troppo presto, un tramite celeste, lo specchio della caritas divina.
Il tentativo, direi quasi prometeico, attraverso il Convivio,di portare il sapere filosofico dell’epoca a tutti quelli cui non era concesso neppure di cibarsi delle briciole cadute dal banchetto dei dotti. Il connesso problema della lingua, messo in luce per la prima volta da questo miglior fabbro del parlar materno in grado di consegnare più che ai suoi posteri, direi ai suoi successori (riprendendo quell’idea di Contini dell’eterno presente di Dante), una lingua unica, cemento di una patria che ancora non c’era e che forse continua a non esserci per davvero.
Una lingua volgare teorizzata nel De vulgari eloquentia che racconta di una storia personale e collettiva, di una poesia che si evolve, di amore, controversie politiche, spiritualità, una lingua in grado di rendere concreto l’astratto, di rendere eterno presente un passato costantemente sotto minaccia.
Una lingua che s’elegge a strumento di denuncia, di cambiamento e smossa alle coscienze, che non può che raggiungere nella Commedia divina la sua massima espressione.
Di questa suddetta ricchezza di temi e forme, di questa esperienza umana e letteraria insieme la Commedia è infatti la summa, il ricapitolo, un’opera di poesia e riflessione sulla poesia attraverso cui Dante vuol cambiare il mondo, intrecciando di fatto la catena di endecasillabi con l’utopia e l’anacronismo, garanzia di eterno presente. Il sommo poeta vuol portare al mondo un messaggio di salvezza per un’umanità deviata e corrotta, di riscatto dalla degenerazione del suo tempo, di cui l’esilio immeritato è manifestazione esemplare, il cui dolore ed umiliazione sono comunque da intendere nell’ottica di un disegno divino, di un progetto imperscrutabile del Creatore.
La rivelazione del ruolo di Dante quale profeta disarmato e perfetto cittadino del mondo si disvela tuttavia gradualmente nel corso del viaggio ultraterreno attraverso i tre regni dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso. 7 giorni di viaggio, la guida del sommo Virgilio attraverso i nove cerchi infernali, tra grida, bestemmie, sofferenza sul volto di povere anime punte da insetti, travolte dal vento, bruciate dal fuoco, congelate nel ghiaccio, dilaniate da Satana, e poi attraverso la natural burella fino alla spiaggia del monte, le 7 cornici, il Paradiso terrestre, Matelda e Beatrice, nuova guida fino alla visione della Trinità, oltre le sfere celesti, rette da intelligenze motrici, impreziosite dalla luce di anime danzanti che in vita han fatto la volontà di Dio e che ora godono dell’amor che move il sole e l’altre stelle, un’esperienza estatica grandiosa che neppure la lingua multiforme di Dante è in grado di riportare.
Sabatino Fatigati
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