Oggi, 25 marzo, è il Dantedì, la giornata nazionale dedicata a Dante Alighieri, particolarmente importante quest’anno perché si celebrano i settecento anni della morte del sommo poeta; si tratta dunque dell’occasione perfetta per parlare di scienza nella Divina commedia!
Il viaggio attraverso i tre regni ultraterreni apre infatti anche interrogativi scientifici. Ad esempio: come è possibile che i peccatori, oramai morti, possano soffrire la fame? Se non vi è più il corpo non dovrebbero esserci bisogni terreni. Dubbio lecito che sorge in Dante nel passaggio tra sesto e settimo girone del Purgatorio, tra quello dunque dei golosi e dei lussuriosi.
Qui la curiosità del protagonista, vivo tra i morti, viene colta dal sagace Virgilio che prima esorta il suo protetto: «Scocca l’arco del dir, che ’nfino al ferro hai tratto» e poi lascia rispondere Stazio, «poeta tolosano» che si è unito ai due.
Ci troviamo nel venticinquesimo canto: la risposta fornita da Stazio si rivela l’occasione per esporre la teoria dell’animazione di Alberto Magno, derivante dal modello aristotelico. L’arcano può essere svelato dall’embriologia: secondo le conoscenze dell’epoca, l’embrione era un prodotto del sangue dotato di un’anima vegetativa e di una sensitiva che gli permettevano di svilupparsi, muoversi e percepire «come spugno marino»; solo in un secondo momento e solo per mano di una potenza prima, quindi per intercessione diretta del creatore, giungeva l’anima razionale, che permetteva alla creatura non soltanto di vivere e sentire, ma anche di avere coscienza di sé, cambiando materialmente pur senza perdere la sua forma substantialis.
A questa terza vis, slegata dalla materialità del corpo ma in grado di contenere le altre due, si doveva la fame dei dannati. Dante, oltre a dimostrare una profonda conoscenza del dibattito embriologico medioevale, ne illustrava l’importanza per comprendere il mondo e coglierne il suo significato profondo e ultraterreno.
Oggi sappiamo inoltre che il poeta era iscritto alla celebre Corporazione dei medici e degli speziali di Firenze, e che conobbe e seguì le lezioni di Taddeo Alderotti, luminare bolognese, e del suo allievo Mondino de’ Luzzi, anatomista e lettore pubblico al quale si deve la ripresa delle dissezioni sul corpo umano. Così nel XXIV canto dell’Inferno si parla con dovizia di particolari di un attacco di epilessia e nel XXX troviamo una precisa descrizione dei sintomi della malaria e dei suoi miasmi: «per febbre acuta gittan tanto leppo».
Non solo medicina: nel celebre XXVI canto dell’Inferno, dedicato a Ulisse, la famosa « montagna […] alta tanto, quanto veduta non avea alcuna», potrebbe essere un riferimento al Pico de Teyde sull’isola di Tenerife che fu oggetto delle prime esplorazioni che si concentrarono sulla riscoperta degli arcipelaghi atlantici (Canarie, Madera e Azzorre). Il tema era all’epoca centrale non soltanto per ragioni economiche e nemmeno per verificare che la terra non fosse piatta (nozione ampiamente diffusa), quanto piuttosto per smontare due miti al centro di un serrato dibattito: quello della zona torrida e quello dell’inabitabilità degli antipodi.
Così Dante ci ricorda ancora una volta come scienza e poesia siano espressioni diverse della stessa essenza, due espressioni del sapere necessarie una all’altra. Il sommo poeta inoltre ci mostra un medioevo molto diverso dal mondo oscuro e selvaggio che erroneamente immaginiamo. Un tempo nel quale si pose una crescente attenzione all’analisi fenomenica del mondo, un periodo che vide la nascita delle università, i primi esperimenti democratici e che favorì audaci esplorazioni. La culla di un sapere che ha permesso il sorgere del Rinascimento e della Rivoluzione scientifica.
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