La Lega chiede di dire basta all’uso scritto, negli atti pubblici, di parole come ‘sindaca’, ‘questora’, avvocatessa’ e anche ‘rettrice’: questi femminili non s’hanno da fare e vanno aboliti per legge. E a chi non si adegua, non già “peste lo colga”, come recitava il tristo Giannetto nella “Cena delle beffe”, ma una multa salta fino a 5mila euro.
Dove non poté la lingua italiana, l’Accademia della Crusca, i vocabolari che registrano ormai da tempo il femminile di tanti maschili ormai superati, poté la legge, come nel più terso per cupezza medioevo, quando qualche nobilotto di qualche scordato feudo di qualche scordata regione si faceva le legge a suo comodo e servizio, mancando un potere centrale.
Il partito del vice primo ministro, Matteo Salvini, non sapendo più cosa inventare per essere al centro dell’attenzione, se la prende con la lingua italiana e con coloro che, nel rispetto del vocabolario che registra i femminili di termini un tempo usati solo al maschile per mancanza di “utenza”, nei documenti non scrivano: ‘sindaco’, ‘questore’, ‘avvocato’ e ‘rettore’.
Dunque, si dirà: il sindaco Giovanna, il questore Daniela, il rettore Francesca, che è come dire: il cantante Mina, il professore Letizia, il dottore Mariella e così via.
A presentare il disegno di legge, scrive Repubblica, un senatore leghista che l’ha così titolato: ‘Disposizioni per la tutela della lingua italiana, rispetto alle differenze di genere’, per “preservare l’integrità della lingua italiana ed in particolare, evitare l’impropria modificazione dei titoli pubblici dai tentativi ‘simbolici’ di adattarne la loro definizione alle diverse sensibilità del tempo”.
Nel merito l’Art. 2. del testo, visionato in bozza dall’AdnKronos, prevede che “in qualsiasi atto o documento emanato da Enti pubblici o da altri enti finanziati con fondi pubblici o comunque destinati alla pubblica utilità, è fatto divieto del genere femminile per neologismi applicati ai titoli istituzionali dello Stato, ai gradi militari, ai titoli professionali, alle onorificenze, ed agli incarichi individuati da atti aventi forza di legge”.
E al successivo art. 3 si pone il “divieto del ricorso discrezionale al femminile o sovraesteso od a qualsiasi sperimentazione linguistica”, ricordando che “è ammesso l’uso della doppia forma od il maschile universale, da intendersi in senso neutro e senza alcuna connotazione sessista”.
Nel finale art. 4 (Sanzioni) si legge come “la violazione degli obblighi di cui alla presente legge comporta l’applicazione di una sanzione pecuniaria amministrativa consistente nel pagamento di una somma da 1.000 a 5.000 euro”.
Ma il senatore leghista ricorda pure i dubbi del “compianto linguista Luca Serianni” e anche “la contrarietà del Presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano rispetto ad una decisione dell’Accademia della Crusca circa la possibilità di declinare al femminile le cariche pubbliche coperte da donne”.
E non solo. Il leghista averte pure che saremmo di fronte a “personalismi non invocati dall’ordinamento il quale correttamente deve pretendere che gli aspetti privati di chi esercita funzioni pubbliche rimangano accantonati. Una decisione assunta da una ‘sindaca’ potrebbe essere addirittura impugnabile poiché non prevista dal nostro ordinamento”.
E in tutto questo ragionamento, manca l’essenziale, vale a dire che il solo maschile di queste funzioni si creò quando appunto il femminile non aveva funzione e ruolo nella società nostra ancora arcaica e che fra le altre cose non consentiva nemmeno la professione di avvocata per le donne o di magistrata o questora ecc.
La lingua, come tutte le attività umane vive e lussureggianti, muta col mutare della società, delle sue esigenze e dunque delle sue professioni, compresi i nuovi ritrovati e compresi pure i nuovi e sempre più massicci ingressi di parole straniere.
Bisogna farsene una ragione. La lingua che usava Dante nel 1300 è altro di quella usata ai giorni nostri, come pure quell’italiano che fino a qualche secolo fa non contemplava il femminile di professioni tenute solo da maschi ma che oggi sono di uguale pertinenza e accesso.
Se a dirigere una università è stata eletta una donna, dopo decenni di lotte e impegni al femminile, non si capisce perché si debba dire “il rettore” e non la rettrice: non sembra un po’ assurdo, visto pure che il termine al femminile è contemplato?
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