Attualità

Decreto Caivano: perché non basta e cosa c’entra l’intelligenza emotiva dei ragazzi

Approvato lo scorso 7 settembre come risposta agli sconcertanti fatti di cronaca di cui si è reso scenario il parco Verde di Caivano in provincia di Napoli, il decreto-legge noto appunto come “decreto Caivano” è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale lo scorso 15 ed è entrato in vigore il giorno successivo. Il provvedimento ha introdotto nuove misure di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile.

L’anno scolastico in Campania si è aperto così, con lo stupro reiterato di due ragazzine di 10 e 12 anni da parte di un branco di altri minori coinvolti nella produzione e nella vendita di materiale pedopornografico e con l’omicidio di un giovane musicista dell’Orchestra Scarlatti junior di Napoli, Giovanbattista Cutolo, ucciso per futili motivi lo scorso 31 agosto, in pieno centro del capoluogo campano, con tre colpi d’arma da fuoco, da un ragazzo di 16 anni con precedenti.

Maggiore durezza nei confronti dei minori

Repressione e rieducazione, questi i cardini dichiarati su cui si basa il provvedimento normativo, anche se il primo appare certamente prevalere. Tra le misure previste per i genitori: fino a 2 anni di carcere per chi non manda i figli a scuola in età di obbligo scolastico, 1 anno di reclusione per i casi di abbandono; da 200 a 1000 euro di multa per chi non sorveglia i figli già colpevoli di un reato; la perdita di potestà genitoriale nel caso in cui i figli siano coinvolti in associazioni a delinquere di stampo mafioso o traffico di stupefacenti. Per minori dai 14 anni in poi, invece, arresto in flagranza di reato in caso di detenzione e spaccio di stupefacenti; daspo urbano dai 14 anni e ammonimento del questore anche per i minori dai 12 anni in caso di risse e violenze, bullismo e cyberbullismo; possibilità di vietare di possedere o utilizzare telefoni cellulari. Per reati con pena non superiore nel massimo a 5 anni di reclusione è previsto inoltre un percorso di reinserimento e rieducazione tramite lavori socialmente utili o collaborazione gratuita con enti no profit fino a 6 mesi. Parental control obbligatorio sui cellulari, infine, per i fornitori di servizi di comunicazione elettronica, che saranno tenuti ad assicurare la disponibilità delle applicazioni.

“Lo scopo è quello di cogliere i primi segnali per adottare delle misure di prevenzione”-  ha chiarito il ministro dell’interno Matteo Piantedosi intervistato su Rai3, nella trasmissione Filorosso lo scorso 13 settembre. “ In qualche modo – ha continuato – per intercettare anche nei sistemi di sicurezza, la propensione al delitto da parte dei minori non appena questa si manifesta e quindi poi offrire delle opportunità perché la stessa venga in qualche modo curata anche in altro modo”.

Ma chi sono questi minori?

Alunni problematici o a rischio devianza, così vengono definiti a scuola. Sono quelli che disturbano, che non riescono a stare seduti troppo a lungo e chiedono continuamente di uscire, che non hanno mai i materiali, che non fanno i compiti e non partecipano alle attività in modo adeguato, che si oppongono, polemizzano, litigano o addirittura sfidano o bullizzano, rendendo la vita difficile ai compagni e ai docenti; sono quei ragazzi per lo più arrabbiati con il mondo intero, quelli che frequentano poco e male, che vengono segnalati ai servizi sociali, e non di rado abbandonano la scuola. E tra questi ci sono anche quelli che fanno uso di alcool, di droghe o delinquono, certo. Sono i figli di genitori troppo assenti o, al contrario, troppo ingombranti, per i cognomi che portano, nelle loro vite, già determinate alla nascita per l’appartenenza ad un clan.

In numero maggiore o minore, ci sono in ogni scuola. Ogni docente ne ha fatto esperienza, molti hanno cercato di catturare la loro attenzione, di creare quella connessione affettivo-relazionale fondamentale per poter prendersene cura, facendo il possibile per portare a casa almeno un piccolo risultato. Ma nella maggior parte dei casi con scarso successo, con poche possibilità di modificare il loro destino.

In altri paesi nei contesti scolastici più difficili si assegnano loro gli insegnanti più preparati, insegnanti che hanno seguito percorsi di formazione ad hoc e che sanno come approcciare alunni problematici o svantaggiati, non solo per aiutarli ad affrontare con successo i percorsi scolastici. Questo è quello che accade, ad esempio, nelle Uncommon schools newyorkesi, dove si utilizzano tecniche e metodologie d’avanguardia per motivare e coinvolgere gli alunni più svantaggiati e si concedono incentivi economici agli insegnanti bravi, in grado di garantire performance al di sopra della media per quanto riguarda l’efficacia dell’insegnamento. In Italia, accade invece l’esatto contrario: nelle scuole più difficili arrivano gli insegnanti più giovani e inesperti, quelli che non potendo disporre di un punteggio elevato devono accontentarsi delle cattedre peggiori e che si trovano ad affrontare, senza disporre di strumenti adeguati, realtà troppo complesse.

La mancanza di un progetto educativo condiviso

Ciò che manca è un progetto educativo condiviso tra scuola e istituzioni territoriali e nazionali, tra servizi sociali e magistratura, un progetto in grado di sostituire gli schemi di significato che il minore possiede e in base ai quali gioca il ruolo negativo che ha imparato a giocare sostenuto e legittimato dal tessuto sociale e dalla cultura locale, con schemi alternativi di pensiero e azione, quali opportunità di costruzione di una nuova identità positiva. Inutile dire che il primo motore di cambiamento è la relazione con l’educatore. Gli insegnanti possono essere figure significative nella storia educativa di questi minori: nella costruzione di una relazione accogliente, rassicurante e strutturante in cui il minore disadattato possa sperimentare la praticabilità di un nuovo modello da seguire c’è il segreto di un efficace intervento sul comportamento deviante. Prima di tutto, si dovrebbe allora investire nella formazione degli insegnanti, creando un sistema che aiuti i docenti ad essere educatori efficaci e gli studenti tutti, soprattutto quelli più difficili, ad avere una reale opportunità formativa, che li faccia sentire oggetto di una progettualità futura, meritevoli di un’apertura di credito nei loro confronti.

Non percorsi teorici ma tirocini pratici, basati sull’affiancamento di colleghi ed operatori esperti, partendo da percorsi atti a promuovere prima delle competenze cognitive, quelle emotivo-affettive poiché esse ne costituiscono prerequisito. Itinerari basati su progettazioni di interventi che non siano necessariamente limitati all’interno delle aule scolastiche ma che contemplino anche la possibilità di scendere in strada ad incontrare quei ragazzi che a scuola non vengono.

Il mondo giovanile secondo Daniel Goleman

Ma cosa manca oggi a tanti ragazzi? Autocontrollo e compassione, sostiene lo psicologo americano Daniel Goleman nel suo saggio Intelligenza emotiva, il suo libro più famoso ed influente, pubblicato in America nel lontano 1995. Due atteggiamenti morali di cui la nostra epoca manifesta grande carenza. Chi manca di autocontrollo è alla mercé di ogni impulso; chi non ha compassione, chi non riesce a condividere le emozioni degli altri non se ne preoccupa e si concentra egoisticamente solo su se stesso.

“Ciò che colpisce –  ha affermato recentemente Goleman nella prefazione all’edizione italiana di Emotional Intelligence – è l’impennata della violenza fra gli adolescenti (…) Questa tendenza, insieme al generale aumento di atti di violenza privi di senso (…) contribuisce a completare un quadro molto triste dal quale emerge che, tra i paesi industrializzati, l’Italia è seconda solo agli Stati Uniti per frequenza di omicidi. Tutto questo indica che alcuni minorenni stanno avviandosi all’età adulta con gravi carenze relative all’autocontrollo, alla capacità di gestire la propria collera, e all’empatia”.

Come possiamo, allora, aiutare i nostri ragazzi, figli o studenti che siano, a crescere e vivere meglio? Educandoli a sviluppare quella che Goleman definisce la loro “intelligenza emotiva”: la capacità di riconoscere e gestire le proprie emozioni senza rimanere vittima di una caotica marea di impulsi seguiti dal pentimento, ma anche di essere empatici, di pensare agli altri, di essere ottimisti e di essere perseveranti nonostante le frustrazioni; di tener conto delle opinioni degli altri senza però esserne schiavi. Queste capacità consentono di non cadere nell’errore di fare scelte irrazionali che possano, ad esempio, condurli al crimine per futili motivi percepiti come mancanza di rispetto, come un parcheggio nel posto sbagliato o una banale pestata di piede, e di agire invece in modo produttivo, costruendo relazioni forti. Ma bisogna fare presto perché il bisogno di un’educazione emotiva non è mai stato così pressante e i danni al tessuto sociale sono già sotto gli occhi di tutti. Dopo il Decreto Caivano, siamo allora in attesa del passo successivo, quello che, ci auguriamo, vedrà mettere in campo una progettazione educativa efficace che tenga conto dei contributi delle neuroscienze e della psicopedagogia.

Amelia de Angelis

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