In questi giorni si parla moltissimo di “stretta sulla beneficienza” in seguito all’affaire Chiara Ferragni e al pandoro gate. Proprio domani, 25 gennaio, come riporta La Stampa, la bozza del disegno di legge sulla beneficenza – battezzato da alcuni “ddl Ferragni” – voluto dalla premier Giorgia Meloni, approderà sul tavolo del Consiglio dei ministri.
Ma quali sono in generale i diritti dei consumatori? Quanto ne sanno i cittadini e soprattutto gli studenti? Proprio questo è il tema di un recente sondaggio di Skuola.net in collaborazione con l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato che ha coinvolto duemila ragazzi tra gli 11 e i 18 anni.
Dall’indagine è emerso che quasi la metà degli adolescenti italiani (47%) è incorsa in problemi post vendita, come ricevere un prodotto difettoso o non conforme alla descrizione.
Dall’analisi delle risposte al questionario somministrato emerge che solo un ragazzo su 3 si dichiara ferrato sull’unico strumento che lo può tutelare davvero, ossia il Codice del Consumo, per cui quasi tutti chiedono di saperne di più. Anche grazie alla scuola: ben 9 su 10 sono favorevoli a lezioni specifiche su questi temi.
Sottoponendo i diretti interessati a una serie di domande proprio sul Codice del Consumo, emergono lacune più o meno diffuse, soprattutto sulla durata delle tutele: soltanto il 15% è consapevole che la garanzia legale su ogni bene venduto dura 24 mesi, mentre solo il 26% sa che si può recedere gratuitamente da un acquisto online entro 14 giorni dalla sua ricezione.
Circa i due terzi dei ragazzi intervistati (62%) sanno che, in caso di guasto del prodotto nel periodo di garanzia, se ne può ottenere la riparazione o la sostituzione senza ulteriori spese; il 59% è al corrente del fatto che, in tali circostanze, in prima battuta ci si debba rivolgere esclusivamente al venditore.
I nativi digitali hanno ancora più dimestichezza, come atteso, se l’acquisto avviene online: il 68% sa benissimo che, se il prodotto comprato arriva a casa non funzionante, si ha diritto a rimandarlo indietro senza doversi sobbarcare le spese di spedizione, mentre solo il 34% sa che, qualora portasse indietro la merce in un negozio fisico, le cose potrebbero andare diversamente. Le carenze, però, restano e i ragazzi si mostrano disponibili ad essere aiutati, sin dai banchi di scuola: il 58% degli intervistati ritiene sia obbligatorio approfondire i diritti dei consumatori, mentre il 31%
vorrebbe che questa opportunità fosse offerta a titolo facoltativo. Una sorta di diritto supplementare, da utilizzare nelle ore di educazione civica o in altri momenti.
Nel nostro Paese, come ha scritto il nostro vicedirettore Reginaldo Palermo, nel 2019 venne approvata la legge 92 sull’insegnamento dell’educazione civica con l’intento di dare una sterzata decisiva all’intero sistema scolastico.
Il primo anno le “33 ore” annuali furono lasciate alla decisione autonoma delle scuole, ma a partire dal 2020/21 si andò a regime in tutte le scuole, dall’infanzia alla secondaria di secondo grado.
E basta fare una banale ricerca in rete per trovare decine di dichiarazioni rese all’epoca da ministri e politici, per scoprire che tutti quanti erano convinti che nelle scuole con questa legge sarebbe cambiato tutto. Quando la legge venne approvata il Ministro in carica in quel momento Marco Bussetti parlò addirittura di “giornata storica”.
La questione è molto interessante perché mette in evidenza un dato che molto spesso il decisore politico trascura (certamente in modo involontario): quando si ha a che fare con temi di natura educativa bisogna essere molto cauti, perché non è detto che una modifica delle leggi serva a cambiare paradigmi consolidati.
Non basta una legge sulla educazione civica per fare in modo che i docenti e le scuole si attrezzino immediatamente per far acquisire ai ragazzi nuove conoscenze e competenze.
In questo caso il problema è ancora più complesso perché se 33 ore annuali non bastano a far sì che gli studenti sappiano come si elegge il sindaco o come si approva una legge, è facile dedurre che, a maggior ragione, quegli stessi studenti non riusciranno ad acquisire i “comportamenti” che ci si attende da un buon cittadino. Se gli studenti non sanno come funziona il nostro regime fiscale, come potranno, da adulti, capire che pagare le tasse è un dovere imprescindibile di ogni cittadino.
A questo punto il pensiero corre a tante altre “educazioni” che nel corso degli anni sono state introdotte nei percorsi scolastici e che ancora si pensa a introdurre.
In ultimo l‘educazione alle relazioni. E che dire del bullismo? Sembra quasi che nessuno ricordi che ancora negli anni ’70 il “nonnismo” a cui erano sopposte le “reclute” che iniziavano il loro servizio militare era del tutto tollerato e forse, in qualche caso, persino apprezzato.
Vogliamo cioè dire che sradicare certi comportamenti che sono entrati a far parte del nostro patrimonio culturale e sociale è operazione difficilissima, forse persino impossibile. Ciò non significa che la scuola debba arrendersi, tutt’altro, ma bisogna avere la consapevolezza che per affrontare questioni educative che vanno al di là del secondo teorema di Euclide o della storia delle guerre di indipendenza non bastano le “belle lezioni” e forse neppure le “discussioni di gruppo”.
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