È perfetta la tempesta che sta per colpire lo status giuridico e salariale degli insegnanti. Un combinato disposto tra decreto su reclutamento e “formazione” dei docenti, ennesimo rinnovo contrattuale con pochi spiccioli di “aumento” e ripresa galoppante dell’inflazione dovuta al nuovo impegno bellico del Paese (con aumento esponenziale delle spese militari).
I docenti hanno compreso la portata epocale del D.L. 30 aprile 2022, n. 36? Esso renderà di fatto obbligatoria la frequenza di corsi di “formazione” organizzati dall’alto (artt. 8 e 12), pregiudicando il pluralismo delle fonti di aggiornamento e, di conseguenza, condizionando le scelte educative e didattiche dei docenti, con grave limitazione della libertà d’insegnamento. Chi non seguirà i corsi indicati dall’amministrazione statale rischierà forse sanzioni disciplinari? Si vedrà scippato degli scatti sessennali o settennali legati all’anzianità (art. 45)? E tutto ciò — si badi bene — per una professione nella quale l’esperienza è fondamento del valore di chi la esercita (altro che “corsi di formazione”!).
Per ottenere il sospirato “scatto-premio”, il docente — quand’anche riuscisse a mettersi in regola con le decine e decine di ore annuali imposte dal sistema — dovrebbe comunque sottoporsi al giudizio insindacabile del comitato di valutazione del proprio istituto (art. 44, comma 4), che ne valuterebbe l’operato sulla base della sua coerenza con quanto appreso nei corsi stessi (fatte salve simpatie e antipatie varie, naturalmente!).
Tutto ciò avanza senza dibattito parlamentare. Anzi, senza alcun dibattito. Quale categoria di professionisti non considererebbe tutto ciò bassamente degradante? E quali saranno le ricadute sulla qualità della scuola pubblica (già compromessa da 30 anni di discutibili “riforme”, tutte miranti nella stessa direzione)? Quanti docenti saranno fieri di lasciarsi indottrinare mediante corsi su argomenti come “tecniche della didattica digitale”, “profili applicativi del sistema nazionale di valutazione delle istituzioni scolastiche”, “governance della scuola: teoria e pratica”, “strumenti e tecniche di progettazione-partecipazione a bandi nazionali ed europei” e amenità consimili? I docenti devono rimanere tali o trasformarsi in ripetitori di ideologie aziendalistiche?
Si vuol forse impedire che dalla scuola pubblica escano i futuri ceti dirigenti (come voleva Piero Calamandrei), per trasformarla in una fucina di dequalificati esecutori di mansioni umili, da gettare in pasto allo sfruttamento del mercato neoliberista? Già oggi, persino nei licei della Roma bene, abbondano studenti che scrivono obbrobri come “tu fui” ed “egli furono”, che non comprendono il significato della parola “soggetto”, che non conoscono le tabelline, che non sanno calcolare l’età di un personaggio storico partire dalle date di nascita e di morte. Abilità simili non si recuperano certo con le Soft Skills: e siamo ben lontani dal credere che i latori del Decreto-Legge 36 non lo sappiano.
La scelta di condizionare alla frequenza di corsi di Stato la restituzione della perduta dignità economica ai docenti italiani (i meno pagati d’Europa, i laureati meno pagati d’Italia, con uno stipendio che è la metà di quello dei docenti sudcoreani) non potrebbe forse sembrar prova di una precisa volontà di asservimento?
I docenti non possono non comprendere che, con un’inflazione già assestata intorno al 6% — e destinata ad aumentare senza controllo nei prossimi mesi, grazie alla congiuntura internazionale e alle scelte esplicitamente interventiste del governo, in uno scenario da terza guerra mondiale (e nucleare) ormai conclamato — il loro futuro è quello tetro di una concreta miseria.
Già chi guadagnava nel marzo scorso (come moltissimi insegnanti) € 1.400 al mese, ha perso, rispetto a un anno prima, almeno € 90 mensili in potere d’acquisto. Tra un anno, quand’anche l’inflazione si mantenesse su un ottimistico 7%, lo stesso stipendio perderebbe altri € 100 al mese di valore (€ 1.300 in un anno).
Da decenni a un docente basta guardare i prezzi in una qualsiasi vetrina per accorgersi della propria sostanziale povertà. Con l’inflazione al 10%, la perdita di potere d’acquisto sarà ogni mese di € 140 (1.820 in un anno!). Così, poco a poco, i docenti (specie se precari) cominceranno a rientrare a pieno titolo nelle statistiche riguardanti i “working poors”. Un risultato di cui andar fieri, ça va sans dire.
Gli stipendi attuali dei docenti — non dimentichiamolo — sono frutto del Protocollo Ciampi del 1993, ma soprattutto del D.Lgs. 29/1993, che, dopo aver privatizzato il rapporto di lavoro del Pubblico Impiego, ficcò nel Pubblico Impiego i docenti delle scuole, vincolandone gli aumenti stipendiali alla cabala dell’“inflazione programmata” (dopo aver abolito la “scala mobile”). Motivo per cui, anche se l’inflazione reale fosse al 12%, il governo (parte datoriale), vaticinando che l’inflazione “programmata” deve essere dell’1%, stabilirebbe per legge che gli aumenti salariali non devono superare una percentuale fissa di quell’1%. Altro che «non ci sono i soldi» (come fin troppi docenti si sono rassegnati a credere)!
Ecco perché suonano come vuota retorica le parole di quei politici e di quei sindacalisti che promettono ai docenti “stipendi europei” senza far cenno alla necessità di rivedere gli accordi del 1993 e il D.Lgs. 29/1993.
Contro la tempesta perfetta che minaccia docenti e scuola pubblica, venerdì 6 maggio i sindacati di base sciopereranno, manifestando a Viale Trastevere sotto il ministero della (ex pubblica) istruzione.
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