L’attrice americana Jennifer Connelly descriveva così, una decina di anni fa, il suo modo di utilizzare il tempo: “Quando faccio sesso mi piace leggere un libro e telefonare. E’ così bello fare tante cose insieme”. Molti ragazzi hanno oggi un modo analogo di destreggiarsi tra mille impegni. Una ragazza di quindici anni dice: “mi tengo in contatto costante con gli amici con gli sms, intanto controllo la posta elettronica, faccio i compiti, oppure gioco al computer mentre telefono”. Un altro quattordicenne, che mostra anche lui di annoiarsi quando non succede tutto contemporaneamente, aggiunge: “Di solito faccio i compiti a casa già a scuola. Altrimenti tengo un libro sulle ginocchia e mentre accendo il computer faccio i compiti di matematica o scrivo una frase. Mentre scarico le e-mail svolgo gli altri compiti”. La madre di un altro quindicenne descrive così la preparazione del figlio per una verifica in classe: “I libri restano chiusi nello zaino, mentre il portatile è sempre aperto sulla scrivania.
Sullo schermo c’è aperto un documento di storia, inglese o fisica, che nasconde la pagina Facebook o iTunes. Intanto con le cuffie ascolta un podcast e a volte, per concentrarsi ancora di più, guarda un video su YouTube”. Queste sono solo alcune delle testimonianze riportate da Manfred Spitzer – un neurologo che dirige attualmente la clinica psichiatrica e il Centro delle neuroscienze e l’apprendimento dell’Università di Ulm – nel suo Demenza digitale, (Corbaccio editore) un saggio che spiega come l’uso diffusamente improprio delle nuove tecnologie corra il serio rischio di renderci tutti più stupidi entro pochi anni. La tesi centrale avanzata dall’autore è che l’utilizzo dei media digitali nel campo dell’istruzione abbia “effetti collaterali che esulano dall’abuso diretto” e che tali effetti collaterali non vengano presi abbastanza in considerazione.
Quando si afferma che a scuola si può migliorare lo studio grazie all’utilizzo dei media digitali, si tende a dimenticare che non esistono dimostrazioni scientifiche di questa tesi, mentre esistono molti indizi che forniscono buone ragioni per ritenere vero il contrario.
Già nel 1997 Todd Oppenheimer aveva cercato di mettere in guardia dalla “follia dei computer” e le sue previsioni si sono almeno in parte rivelate giuste negli anni successivi. In particolare, l’ampia introduzione di internet in ambito scolastico non pare abbia provocato i risultati sperati: un gruppo di ricercatori portoghesi e americani ha esaminato gli effetti del suo utilizzo in novecento scuole portoghesi e il risultato rilevato è stato un peggioramento del rendimento scolastico proporzionale al suo uso. Molte altre ricerche, elencate in dettaglio da Spitzer, hanno confermato questo risultato su scala mondiale.
Naturalmente, non si tratta di un dato imprevedibile. La riduzione del tempo che gli adolescenti dedicano alla lettura è direttamente proporzionale a quello che passano davanti ai videogiochi o a chattare, e questo determina a sua volta un peggioramento della qualità della lettura e dell’assimilazione profonda dei suoi contenuti. I media digitali, ben lungi dal rivelarsi strumenti ideali di apprendimento, in quanto sottraggono lavoro mentale autonomo si sono generalmente dimostrati scorciatoie che favoriscono un apprendimento frettoloso, distratto e superficiale. Inoltre, diverse indagini inducono a ritenere che l’ampio utilizzo, anche da parte dei più giovani, dei social network, favorisca una diminuzione dei contatti reali e conduca a “una diminuzione delle dimensioni delle zone cerebrali preposte alle competenze sociali nei bambini e, di conseguenza, a una diminuzione della competenza sociale”. Sia nei bambini che negli adolescenti si può anzi registrare anche l’aumento del senso di solitudine, dell’insonnia e di varie forme di depressione in misura proporzionale al numero di ore trascorse davanti al pc.
L’ampia diffusione di videogiochi violenti induce poi a sviluppare una sempre maggiore attitudine ad assumere comportamenti violenti, mentre riduce la capacità di provare compassione o empatia, il che a sua volta rende sempre più problematico lo sviluppo di soddisfacenti e armoniche relazioni sociali e personali, con la conseguenza che molti giovani non riescono ad interagire positivamente con il mondo che sta loro intorno e con i loro stessi coetanei.
Ma il quadro inquietante tracciato da Spitzer non si esaurisce qui, perché man mano che si sviluppano comportamenti multitasker, ovvero animati dal gusto di fare molte cose contemporaneamente, diminuisce anche la capacità di autocontrollo e di rielaborazione attiva delle informazioni. L’incremento delle competenze concernenti l’utilizzo dei media a discapito di quelle tradizionali relative alla lettura e alla scrittura comporta una sempre maggiore difficoltà nel conseguire un reale accrescimento delle proprie conoscenze. Senza una solida cultura di base, per esempio, risulterà impossibile trovare su internet le informazioni che si stanno cercando: chi legge poco e poco ha appreso, avrà sempre enormi difficoltà a divenire più colto attraverso l’aumento delle proprie competenze digitali, perché “è necessario avere conoscenze preliminari di un determinato contenuto per poterlo approfondire. Chi non è convinto, può provare a inserire in un motore di ricerca un contenuto di cui non sa assolutamente niente. Si accorgerà ben presto che Google non è in grado di aiutarlo. Vale invece il contrario: più cose so, prima troverò in rete anche i dettagli che mi erano sconosciuti, più individuerò qualcosa di nuovo e interessante e più in fretta completerò le mie ricerche”.
L’autore del saggio si chiede, nella parte finale, come potrebbe essere la società del futuro se i giovani che oggi passano tante ore a uccidere mostri alieni sullo schermo di una play station, a navigare senza meta o a scambiarsi brevi battute sui social network investissero il loro tempo a leggere e a studiare alcune delle infinite cose interessanti che varrebbe la pena conoscere e scoprire, se invece che ai molti intrattenimenti mediatici dedicassero il loro tempo ad approfondire quanto davvero potrebbe interessarli e appassionarli per tutta la vita facendo nel contempo crescere la loro capacità di decifrare il mondo e di comprendere se stessi e gli altri. L’impressione è che tale ipotetica società potrebbe risultare un po’ più umana e vivibile, spiritualmente più ricca e più capace di affrontare razionalmente le proprie emergenze sia di quella attuale sia di quella che si sta profilando all’orizzonte grazie alla quantità esorbitante di tempo che si spende con vari media digitali.
Il problema sollevato da Spitzer non riguarda però solo i giovani e gli studenti, ma anche i loro insegnanti, e ha investito tutto il mondo della scuola. In questo contesto, mentre in altri Paesi si stanno riconsiderando le ragioni che hanno indotto in passato i rispettivi Governi, anche per assecondare gli interessi delle lobbies digitali, a spendere ingenti somme per rifornire di tablet e computer studenti e docenti, il programma d’informatizzazione della scuola italiana prevede, con un ritardo che potrebbe rivelarsi una risorsa se fosse accompagnato da un analogo ripensamento, che i voti vengano messi dagli insegnanti direttamente sugli stessi tablet o computer. Ciò, naturalmente, sta comportando l’acquisto di un enorme numero di apparecchi elettronici. Non ci sarebbe niente di male se questo tipo d’informatizzazione apportasse reali vantaggi. Ma proviamo a vedere cosa sta succedendo in dettaglio: il docente apre una prima volta la sua apparecchiatura inserendo password e nome utente, stando attento che nessuno lo veda, per inserire i nomi degli assenti…, poi, dopo un po’, compie una procedura analoga per inserire dei voti e gli argomenti delle lezioni. Il tutto, mentre ogni tanto la connessione internet si blocca, per cui è costretto a riscrivere tutto su carta per rifare tutto da casa, sperando che il sistema si sia nel frattempo sbloccato. Viene da chiedersi: il tempo dedicato dall’insegnante alla didattica e al dialogo educativo, al termine di questa procedura, è aumentato o diminuito? Certo, i genitori possono vedere in diretta se i figli sono assenti o presenti a scuola ed eventualmente i loro voti. Ma si tratta di un vantaggio didatticamente rilevante? Vale il dispendio di tempo e la spesa esorbitante, a fronte di altre ben più urgenti esigenze della scuola?
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