Sempre più diffusa tra gli adolescenti, la depressione può, specie tra i 13 e i 19 anni, non esser facilmente riconoscibile. I tratti tipici di questo disturbo mentale — che colpisce un adolescente su cinque — possono esser presenti solo in parte, e sembrare stranezze tipiche dell’età. Se però una ragazza prima allegra e sportiva diviene fragile e svogliata per lunghi periodi, il fenomeno deve insospettire. Un ragazzo studioso che diventasse incapace di concentrarsi e che d’imrovviso tendesse a considerarsi “brutto”, incapace o goffo, potrebbe evidenziare i segni di una sindrome depressiva incipiente. La valutazione spetta allo psicologo.
Chi si ammala di depressione, si ammala anche nel corpo: lo dimostrano gli studi sui sintomi psicosomatici, che spaziano dai disturbi metabolici ed endocrini, a quelli gastrointestinali e renali, alla malattie autoimmuni, alle sindromi respiratorie, urinarie e genitali, alle epatiti, al diabete. Disfunzioni tiroidee e tendenza all’obesità sono diffuse soprattutto tra i maschi.
Nei casi più gravi l’adolescente può arrivare all’autolesionismo (soprattutto tra le ragazze). E nell’autolesionismo non rientrano solo le ferite autoinferte, ma anche il mettersi a rischio assumendo troppi farmaci, entrando in un’auto guidata da chi è ubriaco, guidando il motorino in modo spericolato, facendo sesso non protetto.
Le cause della depressione sono spesso endofamiliari. Il professor Paolo Crepet ce lo rammenta spesso. Un giovanissimo cresciuto in una famiglia serena, matura e aperta, educato ad accettare sconfitte e insuccessi e ad impegnarsi per ottenere ciò che desidera, non cadrà in depressione per un brutto voto. Ci precipiterà invece facilmente uno la cui unica relazione col reale sono la TV o i social.
Ma come possono gli insegnanti relazionarsi con un adolescente depresso, e che magari tende ad isolarsi e dipendere da sostanze, videogiochi, web, cibo? Bisogna chiederselo, perché la depressione può portare al suicidio (seconda causa di morte tra gli adolescenti), e solitamente oggi si tende ad addossare alla Scuola — come è noto — anche responsabilità in materie che non le competono. Certo occorre incoraggiare la relazione tra pari, perché pare dimostrato che il dialogo coi coetanei aiuti a uscire dal disagio. I ragazzi si confidano più volentieri con gli amici che con gli adulti.
I docenti possono contrastare la tendenza alla depressione dei propri alunni limitando (attraverso delibere dei Collegi dei docenti) la burocratizzazione della Scuola, e sforzandosi di trasformarla in un luogo dove non si studi per apparire “bravi” o per essere retribuiti delle proprie “performance” (termine oggi di moda) con bei voti. Sarebbe bello se la Scuola — ricordandosi di essere una comunità, ed una comunità educante — alleggerisse gli insegnanti dall’obbligo di programmare, “rendicontare” (altro verbo di gran voga), dimostrare di aver fatto, verificato, esaminato, interrogato. Tutto ciò fa parte — ovviamente — dei doveri di un docente; ma se potesse esser fatto in modo discreto, magari con un numero minore di prove, e con una maggiore fiducia da parte dell’Amministrazione nei confronti delle valutazioni dei docenti, questa maggiore elasticità porterebbe serenità ai docenti stessi, con ricadute positive sull’interazione didattica, aiutando gli adolescenti a non aggravare la loro situazione psicologica.
Ciò non ha a che fare — si badi bene — col rendere la Scuola più facile, né con l’abbassarne il livello culturale. Al contrario, la Scuola deve mantenere alto il livello dell’istruzione impartita, se vuole assolvere alla propria missione di ascensore sociale per tutti gli studenti. Si deve però evitare, ribadiamo, che la Scuola si trasformi sempre più in un’azienda burocratizzata, ove i docenti siano unicamente preoccupati di apparire aggiornatissimi su prove Invalsi, cooperative learning, tutor, brainstorming, full immersion, problem solving, bonus per i docenti “meritevoli”, webquest, storytelling, authentic task, team teaching, role playing, master learning, circle time, background e chi più ne ha più ne inventi.
Se gli insegnanti ritrovassero il piacere di trasmettere agli alunni la propria passione per le conoscenze acquisite, per il proprio campo di studi, per l’utilità rispetto al benessere umano dei contenuti spiegati; se si potesse tornare ad una Scuola in cui i docenti si sentissero stimati, rispettati e valorizzati per la funzione che svolgono, dove impegnarsi non perché qualcuno “premia” a posteriori il “prodotto”, ma perché si ama insegnare; se, insomma, potessimo tornare ad una Scuola libera dal contesto soffocante di una società neoliberistica che ragiona soltanto secondo i dettami di una mentalità mercatistico-bancario-industriale: allora certamente vedremmo la Scuola rifiorire, e con essa i propri docenti e i propri studenti.
Scholé in greco antico significava ciò che per i Romani era l’otium: ossia il tempo libero dal lavoro, da dedicare al riposo, al sollievo del bello, all’approfondimento del vero e del giusto, cui solo gli schiavi non potevano dedicarsi. Altro che la Scuola attuale, dedita allo sviluppo di competenze minimali, trasversali e lavorative, e volta al “superamento delle discipline” (cioè della Scuola stessa)!
Se non vogliamo che l’intero mondo della Scuola soffochi in una depressione senza fondo, occorre tornare al significato etimologico della parola e sforzarsi di non tradirlo ulteriormente.
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