I lettori ci scrivono

Di fronte al Covid, la forza del buon senso…

Faccio la fila nell’ufficio postale di un piccolo centro rurale per pagare la spazzatura. Allo sportello, una signora parla ed agisce con una calma impassibile. Anzi, impossibile. Deve pagare l’acquedotto ma teme di averlo già fatto. Chiede consigli, argomenta ad alta voce … L’operatore, con incredibile pazienza, le dà suggerimenti. Fa ipotesi. Per finire, le chiede un documento d’identità. “Quale? – domanda lei, aprendo il portafogli – La carta d’identità? La tessera sanitaria?”. “No, – risponde lui – quella lì … la patente va bene”. Ed ancora su e giù. Ma quant’è umano quell’impiegato. Mi chiedo da quante decadi faccia quel mestiere, con quella tranquillità, guardando negli occhi le persone, conoscendo tutto della gente, scrutando il forestiero come un poliziotto.

Ipotizzo che cosa accadrebbe, alla signora in questione, se si trovasse, in questo momento, nell’ufficio postale di una grande città. Sguardi derisori, rispostacce, sbuffate di chi fa la fila … No, invece. In questo tranquillo borgo d’Abruzzo, da cui si scorge la cima del Gran Sasso, maestosa ed innevata, tutto è pacifico. Un anziano, seduto ad attendere con me, osserva sereno, affettuoso, salutando chi entra.

No, qui non c’è Covid che tenga. Non c’è depressione, non c’è fretta. Ed almeno per due motivi. Perché si pensa che tutto faccia parte della vita. Anche la morte. E perché lo schema temporale interiorizzato è diverso. Sicuramente non uguale al tempo delle grandi città. Ma nemmeno a quello del piccolo capoluogo di provincia che compare laggiù, nella vallata.

Ho sempre pensato che molta della forza dell’Italia risieda nel suo essere divisa fra centri urbani e piccoli borghi. Così, mentre nei palpitanti centri cittadini, si corre, si sbuffa, si guarda l’orologio, si manda a quel paese, negli infiniti borghi della penisola, più o meno arrampicati sulle colline o incollati alle pendici submontane, il tempo rallenta, sonnecchia. Cambiano i governi ed i regimi e qui tutto resta tale e quale. Al centro del discorso rimane, oggi come ieri, chi è nato, chi è morto, cosa ha detto il prete che è appena arrivato. Il prete, l’unica autorità, dal momento che il municipio non c’è. Se si fa o no quest’anno la processione del venerdì santo ed a chi tocca portare il Cristo morto e preparare i canti.

Non so perché, a questo punto, mi fiorisca nella mente la stupida similitudine della Ferrari che sfreccia a duecento all’ora e della cinquecento, vecchio tipo, che non supera gli ottanta, nemmeno in autostrada. Me l’immagino i sociologi con le loro distinzioni. Società semplice e società complessa. Centralità del gruppo piuttosto che dell’individuo. Rapporti caldi, disinteressati, continui, totali. Oppure rapporti impersonali, freddi, indifferenti, basati sul profitto. Ed ancora, centralità delle tradizioni, della visione religiosa, della casa, del focolare, del letto in cui si nasce e si muore. Oppure, centralità delle norme formalizzate e scritte, del supermarket, dell’automobile, del tempo libero e dello spazio privato …

Una cosa è certa. In questi piccoli centri, l’insulto dei cambiamenti e l’urto delle problematiche sociali arrivano con lentezza. Ed in modo molto attutito. Venne il Cristianesimo, nella penisola, conquistando la rete delle città, mentre, invece, ancora dopo mille anni, le zone interne persistevano nel venerare i pittoreschi dei dell’Olimpo. Tanto che venivano definiti pagani gli abitatori dei “pagus”, cioè dei villaggi. Scesero le orde barbariche ed il nostro popolo, per difendersi, pazientemente spostò i centri abitati dalle pianure, dove i Romani li avevano edificati, alla sommità delle colline.

Oggi, con un neologismo, tutto ciò è chiamato “resilienza”. Essa consiste, appunto, nella calma di chi non si scoraggia. Nella pazienza che sempre ricomincia. Nella forza del buon senso.
Luciano Verdone

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