L’era della digitalizzazione ha permesso in questo spazio compromesso di creare un’interazione virtuale e continua. Ai tempi del coronavirus, la Dad è si imposta una come una possibilità in cui il vecchio e il nuovo cercano un confronto. Si districano dentro una specie di conflitto, dove l’innovazione prende spazio all’interno di una tradizione che è stata ingarbugliata dall’impossibilità.
Sembrano fronti avversi, pronti a contendersi nella solitudine i campi della conoscenza. In questa novità, l’istruzione torna indietro. Torna ai tempi in cui la televisione istruiva.
I Monitor riconquistano un proprio spazio che, erroneamente (oggi), chiamiamo con il nome di “digitalizzazione”. Nell’apparenza di una contestazione, dobbiamo imparare a camminare come i gamberi che sanno tornare indietro guardando in faccia il futuro. Perché l’innovazione non può, e non deve essere, in alcun modo una spaccatura alla possibilità di crescita.
Diamo nomi diversi, a processi nati anni fa. Nominiamo le cose come in una specie di nomination senza coglierne le somiglianze e senza evidenziarne le differenze. Negli anni del poco guerra, l’alfabetizzazione era un riversamento di contenuti passivi che fluivano dal conoscitore esperto al pubblico, passando attraverso la mediazione di un monitor che richiedeva un’attenzione passiva degli apprendimenti. L’io e il sé si disperdevano dentro un tubo catodico che passava dal bianco e nero al colore. Si trasformava attraverso una corrente unidirezionale dove l’italiano predominava per unificare. Entrava nei dialetti un linguaggio prepotente capace di unire, almeno, linguisticamente là dove l’Unità d’Italia non era riuscita.
Il tempo non fa sconti. Va e poi torna. Riparte. Si ferma, annidandosi dentro i bordi di una coscienza che non vuole ricordare ma emerge nella precognizione di un sogno o di una sillaba che colora la mente con una calligrafia nuova.
La didattica a distanza non è la tradizione. Ha un carattere d’urgenza come una sala operatoria che nei suoi ambienti sterili e negli attrezzi puliti sono un richiamano continuo alla vita. Non dobbiamo dimenticarci che nell’emergenza deve emergere un’istruzione sana capace di parlare di emozioni. L’alfabetizzazione televisiva degli anni ’50 era fatta di contenuti e contenitori affettivi vuoti.
Oggi, la Dad cerca di colmare dei vuoti ed è proprio per questo che non deve in alcun modo prescindere dall’alfabetizzazione emotiva.
I mezzi moderni ci pongo difronte a una didattica nuova in cui lo sguardo dello studente ha la potenza espressiva di continuare a dire quella parte nascosta che le parole vorrebbero far scomparire. I nostri studenti non sono delle camere vuote, dei manifesti di propagande e un proliferare di schede da riempire, non sono dei contenitori vuoti da subissare.
No, la Dad entra con l’emergenza, subentra ai banchi di scuola che rimangono vuoti. Entra nelle aule silenziose e nelle pareti che rimango spoglie. Si svuotano i luoghi abituali, quelli odiati e amati, che tornano nostalgici nei i ricordi.
La Dad non è didattica perché la scuola è ben altro di un compito da finire o una pagina da riempire. Non possiamo dimenticarci di questo. In questo stato di emergenza e di necessità, tutti siamo attraversati da una tempesta emozionale di una routine che è stata cancellata, fatta a brandelli come uno straccio vecchio di cui disfarci presto.
Essa conserva inalterate degli squarci di incredibili interazione in cui il contatto non è una semplificazione dell’impossibilità. È una routine pedagogica di continuità con il senso di normalità. È il senso appagante del prepararsi e del prendersi cura del proprio corpo. È un pigiama che viene riposto nel cassetto, marcando la differenza tra il giorno e la notte, tra l’esserci e il non esserci. È uno spazio abitato di persone che si trovano per parlare di ciò che sento, provano e vivono nei limiti di una quarantena che li obbliga a guardarsi dentro. È la solitudine che cessa perché ci sono gli amici. C’è il compagno di banco che ripropone le sue battute, c’è un senso di identità che non si perde. Ci sono i sorrisi dei bambini, quella sorta di beatitudine infinita in cui arde forte il desiderio di ricominciare. La nostalgia e la mancanza si disperdono lentamente nei suoni dei tasti, mentre nel cliccare del mouse sorge la possibilità di non essere soli. Vengono in qualche sconfitte dalla voglia stare insieme, dal farsi compagnia condividendo le gioie e i dolori. La didattica a distanza è una fruizione infinita di emozioni che nel “meet” ritornano. È lo spazio condiviso di una dialettica di un gruppo e di pezzi di società che si ritrovano. È un contenitore emotivo, affettivo e sociale in cui il contatto visivo è la parte attiva ed attivante. È la ripetizione costante che l’attesa premia creando certezze. Il contatto umano si trasforma in una routine pedagogica del prenderci virtualmente per mano. È uno sguardo di continuità tra ciò che c’era e ciò che c’è adesso. C’è il senso di responsabilità dell’essere connessi e presenti. Ci si affida alla responsabilità degli studenti, si fa appello alla loro maturità, alla loro crescita e al senso che hanno di se stessi. È un gesto di fiducia continuo in cui affidarsi e fidarsi sono delle possibilità concrete.
L’insegnamento non è mera esercitazione di un compito di matematica o di una frase da formulare, bensì è la formula concentra della possibilità di esseri umani. Si è umani nella forza che si trasmette, nel confronto, nella paura che emerge e nella solitudine che si attenua. Siamo esseri sociali alla ricerca continua di essere accolti, di essere soli e di stare insieme. Ci si affida alle risposte del buon senso, al senso pratico di fare della necessità una virtù accontentandoci di quel poco che si ha.
In questa situazione così spiacevole, una speculazione a ribasso sarebbe quella di perdere l’occasione di chiedersi come ci si sente. Il “come stai”, invece, con il passare dei giorni, è diventata la frase pragmatica di uno scioglilingua antico in cui ritrovarsi. “Sentire” non è più solo il verbo di lettere pronunciate in fretta ma torna ad essere una funzione profonda che richiama la percezione del provare e del condividere. Nel silenzio o nelle parole, ognuno conosce il dolore e la sofferenza della deprivazione di una vita ferma. Uguali e diversi, seguendo la via della mente e del cuore. I confini si sono assottigliati dentro una distanza che può essere colmata saltando insieme.
Se la didattica a distanza diventasse la compilazione di un compito o l’alibi di un appagamento narcisistico allora ciò significherebbe che l’insegnamento ha fallito in quanto capace di ossequiare con riverenza i contenuti a discapito del potenziale umano. La crescita degli studenti, invece, deve avvenire attraverso un’alfabetizzazione emotiva che si impadronisce della conoscenza e degli intellettualismo sterili. Il profitto deve essere una somma paritaria tra l’essere, l’esserci e il saper fare. Il mondo ha bisogno di costruire un’etica diversa per ricominciare. La conoscenza intellettuale di un paradigma deve avere lo stesso valore dell’abilità emotiva e dovranno seguire pedissequamente il passo dell’essere umani.
In questo stato di emergenza, i criteri valutativi dovrebbero essere cambiati. No, non è il tempo di sapere solo quanto fa due più due. È il tempo di sapere che emozione suscita il calcolo, che sensazione prova uno studente nel riuscire a compiere dei passi verso il risultato. La scuola dove essere una Mater autorevole dove le regole del gioco contano e sono umane. Ricordiamo che l’ignoranza affettiva ed emotiva è pagata a caro prezzo dalle società. Credo che la DAD sia da considerare come uno strumento utile a creare uno spazio di continuità relazionale e di interazione, non solo di tipo intellettuale. La Dad non può sostituirsi alla scuola ma essere da supporto come strumento di transizione e di evoluzione, di tradizione e di innovazione.
Abbiamo bisogno di una generazione competente e completa che sappia parlare di matematica ma sappia anche ascoltare. Sappia padroneggiare la letteratura senza trascurare la poetica interiore.
Patrizia Gentile
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