Credo come in poche altre situazioni ci stia capitando di sperimentare, nella scuola virtuale di queste mattinate, quanto sia vero il nesso tra ratio e relatio.
Un nesso non giustificabile sul piano etimologico, ma sul piano semantico.
Non c’è pensiero, cioè, non c’è vita senza relazione.
Questo il contesto.
Poi il pensiero, che è ragione, emozione, fede, immaginazione, fantasia: poi il pensiero, dicevo, è e sarà chiamato anche ad andare-oltre.
E l’oltre è l’oltre dell’io, di ogni io, per cercare di captare, intuire, cogliere l’universale.
Ebbene, attraverso l’esperienza della didattica a distanza, così chiamata, stiamo imparato a rapportarci in altri modi, con l’aiuto delle tecnologie, e nello stesso tempo ad apprezzare quella didattica in presenza che oggi ci manca, cioè la scuola viva che è la pratica ordinaria della vita di classe e di istituto.
L’esperienza della assenza (della vita di classe e di scuola) come compagna di sentimenti e di pensieri della nuova esperienza di relazione a distanza.
L’esperienza dell’assenza, dunque, come esperienza viva, come pensiero forte, come domanda di un termine e di una fine a questa emergenza, perché poi quella vita di scuola in presenza possa ritornare.
Giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, questa esperienza presente-assente è diventata lo sfondo delle nostre giornate, compagna di viaggio, nelle nostre case, di altre analoghe esperienze: di fratelli e sorelle, ma, prima ancora, di genitori impegnati nello Smart working, e di altri famigliari, come i nonni, tutti reclusi in spazi ristretti, e tutti in attesa che passi la mortale buriana del coronavirus. Il nuovo nemico, con le paure ed angosce a farla da padrone.
Il pensiero di ciascuno proteso, dicevo, al dopo: quando, anzitutto, finirà, e cosa succederà? Sarà tutto come prima, oppure è una lezione di vita che cambierà le nostre vite?
Nella vita della scuola, prima di tutto, abbiamo tutti velocemente imparato che le tecnologie, se usate con misura, possono dare una mano, possono cioè sopperire ad una impossibilità. Nel nostro caso, alla scuola come l’abbiamo sempre fatta.
Le tecnologie didattiche, cioè, hanno, pur tra difficoltà, garantito il prosieguo, in qualche modo, della vita della scuola, cioè il mantenimento in generale dei percorsi di apprendimento.
Anche se tutti hanno capito, dal vivo, che quello che stiamo sperimentando è un altro tipo di far scuola, perchè senza vita di classe. Qualitativamente diverso, e sul piano relazionale fortemente deficitario. Perché la relazione non ha surrogati tecnologici che tengano, nei confronti dei propri compagni, e nei confronti dei propri docenti e della scuola come comunità.
No, non ci sono surrogati tecnologici che tengano.
Come sarà la scuola, dopo?
Cioè dopo la fine dell’emergenza?
Le scuole hanno strutture adeguate, sono e saranno in grado di rendere flessibile, poi, il tempo-scuola, al di là della maggiore disponibilità delle tecnologie?
Tempo e spazio, dunque, oltre gli strumenti.
Qui dobbiamo ammettere che la storia della scuola italiana non è ancora in grado di comprendere sino in fondo cosa voglia dire ripensare il tempo-spazio.
Perché la nostra scuola è ancora troppo centrata sul docente che insegna, e non sullo studente che impara, con edifici che sembrano delle caserme, con spazi angusti e risorse limitate.
Credo, però, che questa esperienza tragica che stiamo vivendo insegnerà a tutti una cosa: che le relazioni dovranno diventare il punto fermo dal quale partire.
In mancanza di risorse certe, nella speranza, credo vana, di nuovi edifici e nuovi spazi, saremo costretti ad adattare, visto il crescente calo demografico, gli attuali spazi per creare ambienti più aperti, più idonei a forme di interazione che privilegino una didattica attiva, coinvolgente, partecipativa.
Col ruolo del docente sempre meno di vecchio stampo, cioè direttivo, ma sempre più maestro nel senso socratico del termine, cioè stimolatore e suscitatore di domande, di stimoli, di proposte e di opportunità. Vero maestro.
In un contesto materiale e sociale diverso: come campus, dunque.
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