No, non l’avremmo mai immaginato.
Non credevamo possibile che la scansione turbolenta del nostro vivere, l’ostinata violenza con la quale l’uomo è riuscito finora a soffocare la noia potesse subire una siffatta battuta di arresto.
Il nostro flusso del fare, del correre qua e là, di essere costantemente operativi e produttivi è stato interrotto da questo imprevisto e imprevedibile stop, rendendoci smarriti.
Ma questo disorientamento è durato poco, troppo poco.
Tant’è che ci si è prodigati tempestivamente a trovare vie traverse per perpetrare l’adrenalinico stress, anzi farlo lievitare e riversarlo come un blob all’interno delle mura domestiche. Ed ecco che saltano fuori smart working, webinar, videolezioni, piattaforme di ogni tipo, costanti rendicontazioni e isterici controlli di mail ad ogni ora. Giusto per poter continuare a saturare il nostro tempo, colmandone il vuoto.
Come se non si riuscisse a sostenerlo, lo sguardo di questo vuoto.
Non accorgendosi, piuttosto, di quanto invece sia penoso dover sopportare il pieno del mondo, il suo caos, le sue storture.
Ci siamo così tanto abituati ad esso da risultarne assuefatti.
Tutto questo preambolo per giungere al nocciolo della questione: si fa un gran parlare di didattica a distanza.
Fondamentale, prima di ogni altra considerazione, è chiarire che questa poggia su una base strettamente volontaria, non essendo prevista nel mansionario stabilito dal contratto e non risultando tra gli obblighi relativi alla funzione docente.
Tuttavia, anche per non dover rendere conto ad una società sempre pronta ad additarla come categoria di sfaticati, la classe docente si aggira, talvolta anche goffamente, nell’Eldorado di proposte digitali venute fuori come funghi, affinché l’attività didattica interrotta dagli eventi possa avere seguito.
Creare classi virtuali, improvvisarsi videomaker, interrogare su Whatsapp, aprire forum di discussione, indicare valanghe di link da visionare, caricare le bacheche di ogni tipo di file richiedendone ostinatamente, magari in tempi rigidamente scanditi, un ritorno: ecco il docente ai tempi del Coronavirus.
Spesso in una nervosa corsa a chi fa meglio e di più, quindi all’interno di una logica competitiva perfettamente in linea con il mondo che ci siamo lasciati là fuori.
Credo che, già da un pezzo, si sia insinuato nella mente degli addetti al mestiere, almeno una volta, il dubbio sulla effettiva validità di questa modalità di apprendimento.
Si consideri la normale attività in classe: per suscitare l’interesse dei ragazzi, il docente deve essere persuasivo, empatico, coinvolgente, pragmatico e deve anche saper scandagliare, all’occorrenza e con occhio bionico, il possibile utilizzo di dispositivi tecnologici in fase di verifica e non.
In una situazione assolutamente distante dalle consuete dinamiche, quindi in una classe virtuale, ci si rende conto che le azioni didattiche intraprese, per quanto possano essere ben strutturate e rese accattivanti, risultano seriamente compromesse ed i risultati ottenuti fortemente falsati.
Ecco perché credo che la DAD possa intendersi maggiormente come un modo sì di “mantenere viva la comunità di classe, di scuola e il senso di appartenenza” combattendo “il rischio di isolamento e di demotivazione” ma , prevalentemente, di tenere occupati i ragazzi facendoli fare, facendoli produrre. Quindi preservandoli dalla noia e da quel vuoto succitato.
A questo punto, credo potrebbe rivelarsi opportuno farli anche annoiare, questi ragazzi.
Far loro provare l’ebbrezza della noia affinché capiscano che solo una mente immersa nel vuoto può davvero produrre. Produrre pensiero, IL nostro bisogno per eccellenza. Quello che poi costituisce – cosa non da poco – le fondamenta dei bisogni del fare e del dire.
Perché non credere che il terribile evento che ci ritroviamo a vivere possa costituire per loro un’opportunità, un’imperdibile occasione per pensare?
Pensare a ciò che sta succedendo e chiedersi qual è il proprio ruolo e la propria responsabilità in tutto ciò.
Pensare a chi si è, a chi si vuole essere e a cosa si vuole davvero.
Pensare a ciò che è essenziale per la propria vita.
Pensare alle abitudini sbagliate dalle quali liberarsi.
Pensare agli affetti trascurati, a quelli perduti e a quelli da salvare.
E – perché no? – pensare che non è poi così male quel professore che non si digeriva…
Ma, per poterlo fare, hanno bisogno di non essere schiacciati dalle aspettative, dal pieno di quel mondo che rischia di perseguitarli anche dentro le loro case.
Del resto, alla prigionia in casa, per un tempo non ancora prevedibile, si deve aggiungere una subdola prigionia digitale?
Questo in un’ottica che non prevedrebbe , chiaramente, l’esclusione del sacrosanto diritto delle studentesse e degli studenti di ricevere un adeguato supporto didattico, per carità.
Potrebbe significare, piuttosto, offrire attività soft correlate a tutti i chiarimenti per chi manifesta spontaneo interesse e curiosità. Ma senza imporre stringenti obblighi di risposta.
Del resto, da quando serpeggia l’intenzione di sanare l’anno scolastico, rendicontare ogni cosa potrebbe rivelarsi, in fase valutativa, un vero boomerang perché – considerando che non vi è modalità di insegnamento meno democratica della DAD – trascinerebbe le istituzioni scolastiche dentro l’inquietante buco nero dei ricorsi.
Insomma la miglior lezione potrebbe essere così condensata: abbiamo perso la libertà di movimento ma possiamo prendere il fiato della consapevolezza riappropriandoci, per quanto possibile, di ciò che la tecnologia ci ha tolto.
Per ripulirci un po’, dentro e fuori.
Per affacciarci alla finestra e poter constatare, con sommo piacere, che anche il Pianeta che ci ospita lo sta facendo.
Daniela Lizzio
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