Riceviamo dalla prof Annamaria Zizza, docente di lingua e letteratura italiana al liceo classico “Gulli e Pennisi” di Acireale, una appassionata riflessione sulla didattica a distanza, con spunti critici su cui il dibattito è sempre aperto.
All’ inizio era la Dad, una sigla palindroma dal suono morbido e promettente, che a tanti docenti di fresca nomina o dalla formazione tecnologica faceva balenare immagini di paradisi informatici, di smaterializzazioni- tipo corpi astrali- di fogli A4 dagli inchiostri sbiaditi, di invii di produzioni scritte ed esercizi in piattaforma classroom, di formulazione di questionari sui moduli Google, di consigli di classe da casa tra una tazza di tè e un ciabattare di pantofole. E non erano rari gli inni alla Dad e gli strali a quei docenti, spesso di area umanistica, che storcevano la bocca davanti ad una didattica filtrata attraverso il diaframma dello schermo e che talora venivano sommessamente scherniti come dinosauri o vecchie portaerei in disuso.
Poi pian piano le celebrazioni acritiche si sono stemperate. Siamo ritornati a scuola, in quella sorta di terra di nessuno, di costruzione ministeriale anfibia, che è stata ed è la DDI (Didattica Digitale Integrata). La mia esperienza è quella di una docente di Italiano e Latino di un Liceo Classico della provincia di Catania e non pretende certo di esaurire tutte le esperienze, le deduzioni e le controdeduzioni che un docente ha potuto ricavare da una situazione nuova e per alcuni versi destabilizzante, anche perché poco rassicurante. E’ una narrazione soggettiva di chi ha una bella carriera alle spalle, ma non è alieno dal nuovo, a cui anzi guarda con interesse, quando utile alla didattica e non emanazione di inutili fumi ministeriali.
La divisione degli alunni operata su criteri razionali ma anche psicologici (allo staff del DS ormai si chiedono competenze psicologiche, oltre che organizzative secondo la logica didattica) ha ammorbidito il rientro, lo ha calato in un’ ottica di pre-normalità che ne ha permesso l’ accettazione. E così l’ attività didattica in presenza per metà classe e in Dad per l’altra metà, pur non accolta col sorriso, è stata recepita come processo utile alla ri-edificazione del concetto di scuola, spazzata via dal tornado del 5 marzo. E così anche l’assurdo procedimento richiesto per le produzioni scritte in presenza, con “messa a dimora” degli elaborati in una scatola di cartone per decontaminarli dagli “umori pestiferi” e successiva, cauta, correzione. Anch’ essa è passata sotto silenzio, come tante cose che riguardano la scuola in Italia. Solo al centro quando si racconta di docenti ingiuriati da genitori inferociti o di alunni insofferenti di qualsivoglia istruzione, o ancora di pseudoinnovazioni di importazione, che già nel Paese di provenienza sono considerate obsolete. Provincialismi, a ben guardare, caratteristici di un Paese che dovrebbe menare vanto della propria scuola statale e che, invece, quella stessa scuola distrugge pian piano.
Sappiamo come è andata. In Italia le conclusioni sono sempre provvisorie. Mi appare di tutta evidenza – ma questa è facile e generale deduzione- che la scuola sia stata penalizzata e, oserei dire, castigata come istituzione culturale, come dovesse scontare un peccato originale o fosse un’ istituzione marginale alla società, funzionale solo al parcheggio degli alunni in assenza di genitori al lavoro. Lo stesso è accaduto per altre istituzioni “sacrificabili”, come teatri, cinema, biblioteche e musei. Luoghi che non sono certo destinatari di assembramenti, ma solo concentrati di rifessioni e di pensieri, di godimento di uno spirito spesso depresso dal materialismo trionfante.
E così abbiamo ripreso con la Dad. Questa volta però, almeno per me, è stato tutto diverso. Non avendo una buona connessione a casa, in questi mesi mi sono recata a scuola e lì ho svolto la mia attività in un’aula. A scuola la connessione era stabile e non c’era il pericolo di improvvise cadute, di disperati tentativi di riconnessione, di microfoni che non si accendevano, insomma di tutto il repertorio ansiogeno che deriva dal malfunzionamento della rete e che provoca sentimenti di frustrazione e desideri irrefrenabili di dare un calcio ad una tecnologia che mostra i suoi limiti.
Dire che l’esperienza sia stata negativa non sarebbe, tuttavia, onesto. Perché ho imparato, come Renzo alla fine de “I Promessi Sposi”. Ma non a “non mettermi nei tumulti” o a non “attaccarmi un campanello al piede”. Piuttosto a calibrare il mio intervento per migliorarne ulteriormente l’efficacia.
Arrivo a scuola in largo anticipo, parcheggio e osservo con piacere quei muri bianchi così familiari con la targa all’ ingresso, passo le mani sotto al dispenser e le disinfetto, mi sistemo davanti al termoscanner e aspetto pazientemente- a volte abbassandomi scherzosamente per permettergli di misurare la temperatura del mio corpo- che la voce elettronica mi consenta di passare. Poi vado nella solitaria aula docenti e rovisto tra i miei libri, ammonticchiati nel cassetto, documenti del 15 maggio d’antan e fotocopie di materiale irreperibile nel web, ma tanto interessante ai miei occhi. Sono lì, in attesa di risentire le voci dei colleghi e i passi di chi entra ed esce veloce, con la voce resa ottusa dalla mascherina. Salgo le scale e trovo il pc già acceso. Appoggio i libri e apro il registro elettronico sbuffando davanti alle continue richieste di ri-autenticazione . Poi le classroom, ormai più numerose delle stelle nel cielo. Ma non è ancora l’ora di iniziare. E allora mi metto ad approfondire, cerco video per integrare la spiegazione – come quelli, bellissimi, di Rai letteratura, o letture di Vittorio Gassman, o appassionanti racconti di strategie come quella sulla battaglia di Farsàlo che ho recentemente scovato, o commenti di Luciano Canfora o Maurizio Bettini sulla storia della repubblica romana (la mia passione di sempre, da quando un supplente al Liceo mi fece fare una ricerca sui Gracchi e io studiai sul Kovaliov); o ancora pagine che potrebbero suscitare l’interesse degli alunni e magari-chissà-animare un dibattito, distraendoli da quel limbo sonnacchioso in cui sono immersi, specie di prima mattina, e accendendo una scintilla in quegli occhi che aspettano solo di confrontarsi con la realtà esterna.
L’aula è già stata diligentemente disinfettata e talora si affaccia un collaboratore scolastico per chiedermi se mi serve qualcosa. No, non mi serve niente, ma se sono in pausa leggo o chiacchiero amabilmente di questo tempo disperato o scendo alla macchinetta e schiaccio il pulsante del tè, attendendo che il resto scivoli nel piccolo vanetto metallico. Risalgo. E’ ora di iniziare. Entro su Meet e li vedo. I puntuali, sempre gli stessi, e poi gli altri. Li saluto uno a uno. Ci sono quelli che intervengono sempre, ci sono i timidi, o qualcuno che si nasconde per furbizia o perché teme di dire sciocchezze. Li esorto a parlare e sovente ci riesco. L’incoraggiamento è importante nella scuola e sempre più ne ho la consapevolezza, sempre più la mia didattica e la mia relazione umana parte dalla persona e si declina con essa. Qualcuno mi chiede di parlarmi alla fine dell’ora. Aspetto che tutti escano e poi ascolto. Sono spesso racconti di disagi che sanno di lacrime a volte trattenute, a volte versate. L’insicurezza si è evidentemente accresciuta in questo tempo strano e così il senso di oppressione. Li rassicuro.
Gli alunni hanno uno sfondo diverso: una cucina tradizionale, una batteria antica di pentole in rame, una cameretta come quella di De Maistre, piccola e già ordinata (ma senza la stampa della schiava che piange!), uno studio dai colori scuri con file di libri elegantemente infilati nelle loro allocazioni.
E si comincia.
Annamaria Zizza
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