I grandi media non vedono la notizia, ma la notizia c’è: i docenti di un Liceo di Livorno (il Liceo Statale “Enriques”) hanno varato fine maggio una “Raccolta firme contro l’ipotesi di DAD a settembre, per un ritorno in presenza con adeguate risorse e in sicurezza”. In un mese le firme online raccolte — malgrado il silenzio quasi assoluto delle testate giornalistiche (eccezion fatta per alcuni giornali locali) — hanno sfiorato le duemila. A questo punto i promotori dell’iniziativa hanno deciso di allargare la platea dei possibili firmatari «a tutte quelle persone (lavoratori/trici, studenti, genitori e altri/e) che vogliano sostenere la campagna per una ripresa della didattica in presenza in totale sicurezza».
Il testo dell’appello chiarisce che la “DaD” non è vera didattica, ma «una serie di interventi emergenziali, non reiterabili, che non possono essere pensati neanche come “normale” integrazione delle attività in presenza».
«Le attività a distanza», continua il documento, «indeboliscono la dimensione relazionale tra docenti e discenti e ostacolano la relazione tra pari quale elemento e obiettivo costitutivo dei processi educativi e di istruzione». Inoltre «la chiusura delle scuole carica le famiglie di compiti di assistenza e supporto allo studio che, nel rispetto del diritto all’istruzione, debbono essere in capo al sistema scolastico pubblico». Per di più la “DaD” «grava illegittimamente sulle risorse logistiche private dei docenti e dei discenti, impone di lavorare in situazione decontrattualizzata e sottrae importanti risorse finanziarie alla scuola pubblica per destinarle alle aziende private che hanno scommesso sulla istituzionalizzazione delle attività online».
Pertanto «riteniamo del tutto inadeguate le ipotesi finora avanzate dal Ministero, che ha scelto quale unico interlocutore il Comitato Tecnico Scientifico, escludendo, oltre alle rappresentanze del mondo della scuola, presenze imprescindibili nella stesura dei protocolli come Ministero della Sanità e INAIL».
«Inaccettabili» sono dunque «sia l’ipotesi di “didattica mista”, con classi a metà alterne in presenza e a distanza, sia l’idea dell’orario di lezione ridotto, misure di dubbia efficacia sanitaria ma di sicuro danno al diritto allo studio».
Ed ecco le proposte concrete dei docenti: prima fra tutte, la diminuzione del numero di alunni per classe, perché «è intollerabile che da una parte si richiami al distanziamento e dall’altra si proceda a formare, come sempre, classi pollaio». Si chiede poi l’immediato avvio di «un piano di investimenti e lavori per ampliare le strutture e per la messa in sicurezza delle esistenti». Occorre d’altronde, secondo i docenti, «respingere qualsiasi utilizzo del terzo settore per la gestione della didattica: la scuola non può essere “esternalizzata”».
Lapidaria la conclusione del documento: «Ove queste misure non fossero prese, dovrà esser chiaro che non è l’emergenza, ma l’incapacità politica a determinare il ricorso agli strumenti online: e per tali motivi non saremo disposti ad accettare passivamente il reiterarsi di una situazione che calpesta i nostri diritti di lavoratrici e lavoratori, mortifica la nostra professionalità, penalizza le famiglie e nega a bambini/e e ragazzi/e quelli che sono loro diritti fondamentali».
Nata prima dei documenti dei Licei “Virgilio” e “Mamiani” di Roma, la presa di posizione dei docenti livornesi è ancor più diretta, determinata, dura. Forse per questo è stata volutamente ignorata dalla stampa “che conta”? Qualcuno non vuole che le (tantissime) inascoltate voci di dissenso intacchino il quadro idilliaco (dipinto ogni giorno per quattro mesi da mane a sera mediante telegiornali, spot pubblicitari martellanti, dibattiti “politicamente corretti”, “talk show”) di un’Italia entusiasta della scuola “a distanza”?
Perché tanta solerzia nell’affrescare il sereno dipinto di un’Italia così concorde e felice nel rinunciare ai propri diritti purché il Governo la salvi dal “nemico invisibile” (sebbene i dati ufficiali della pandemia provenienti dall’Istituto Superiore di Sanità del 9 luglio scorso non confermino affatto trattarsi di “morte nera”)? Perché questa insistenza nel Governo nel voler prolungare fino al 31 dicembre lo stato di emergenza? Forse anche perché in tal modo si potrà continuare governare a colpi di DPCM, eludendo diritti e Costituzione (e imponendo, tra l’altro, la “DaD” a oltranza)?
Peraltro — ammesso e non concesso che la “DaD” sia cosa buona e giusta, dovere dei docenti e fonte di salvezza — perché non si investe nella creazione di una piattaforma nazionale di proprietà dello Stato, anziché servire su un piatto d’argento la Scuola (e i dati di docenti, studenti e genitori) a Google e ad altre miliardarie multinazionali?
Perché la gestione della casella di posta elettronica istituzionale dei docenti “@istruzione.it” (e quindi dei dati sensibili dei docenti stessi) è stata anch’essa appaltata ad Aruba, azienda privata?
E perché giornalisti “importanti” — ancorché profumatamente pagati per informare, porre domande e tenere sotto controllo chi amministra — certe domande (di buon senso comune) non le immaginano proprio?
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