La Ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina ha ragione: i docenti debbono seguire la propria coscienza. Le parole da lei rivolte ai docenti il 16 febbraio 2020 son di portata storica. L’imperativo categorico di Kant, unica legge razionale etica che fonda l’azione morale, costituisce la stella polare in base alla quale orientare le proprie scelte di cittadino e di insegnante. Era ora che un personaggio politico pronunciasse parole simili, in un Paese ove troppo spesso prima d’ora l’etica è stata subordinata al calcolo politico (benché sia comunque importante non scivolare nella tentazione dello Stato etico, i cui danni passati ancora bruciano).
Tuttavia — a meno che il porsi domande non sia stato proibito da qualche DPCM a noi ignoto — viene da chiedersi: l’appello all’imperativo categorico mette forse al riparo i docenti dalla riflessione sulla legittimità (e quindi sulla validità giuridica) di Collegi, consigli di classe, scrutini, promozioni e bocciature online? Se sorgessero controversie, ricorsi, opposizioni da parte di docenti e genitori, come si regolerebbe un giudice? Andrebbe a controllare la normativa, oppure si accontenterebbe di verificare — chissà come, poi — che i docenti abbiano agito in linea con l’imperativo categorico di Kant?
La Ministra lo ha ammesso: «La didattica distanza è il migliore dei modi possibili per fare didattica? Penso proprio di no. È migliorabile: penso proprio di sì. (…) È evidente che non può sostituire la scuola tradizionale, fatta di fisicità». Tuttavia — ne siamo convinti quanto la Ministra stessa, sebbene nessun obbligo di legge possa costringervi docenti né studenti — è innegabile che qualche forma di scuola distanza vada adottata in questo momento di distanziamento sociale da coronavirus; bisogna mantenere quel legame tra allievi e Scuola che i docenti faticosissimamente avevano costruito nei mesi precedenti e che, senza didattica a distanza, verrebbe distrutto, con gravi conseguenze sulla crescita di questi cittadini di domani.
La coscienza d’ogni Docente degno di questo nome, però, spinge il docente stesso a non poter avallare l’esigenza governativa di validare verifiche e interrogazioni a distanza. Non solo nessun docente in buona fede, ma nemmeno nessuna persona seria e dotata di buon senso crederebbe valida un’interrogazione a distanza attraverso computer, tablet o telefono. Anche perché solo a teatro le leggi ammettono il suggeritore; a Scuola (se ancora di Scuola intendiamo parlare) il suggeritore non è lecito.
Le verifiche scritte poi sarebbero veramente una barzelletta. Quale docente accetterebbe — in scienza e coscienza — di passare per scemo davanti ai propri alunni, mentre questi, a casa propria, trovano nel web versioni di greco, problemi di fisica, temi d’italiano, risposte di storia e filosofia, o si fanno aiutare dal genitore o dal compagno bravo? Cosa andremmo a misurare “a distanza”? La preparazione o la furbizia?
Se poi si vuole questo, lo si dica e lo si scriva e lo si statuisca. Per legge. Perché le leggi attuali non lo consentono. Sic et simpliciter.
Così come non impongono — è opportuno ribadirlo, sempre in nome dell’imperativo kantiano — il telelavoro per i docenti. Non lo impone la legge 81/2017, mirante «a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato». Essa, all’articolo 18, riguardante il “lavoro agile”, recita come segue: «Le disposizioni del presente capo (…), promuovono il lavoro agile quale modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa. La prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva». E infatti nemmeno il CCNL dei docenti li obbliga al telelavoro. Conta, tutto questo, in uno Stato di diritto?
Parrebbe proprio di sì, dal momento che l’articolo 323 del Codice Penale impedisce ai Dirigenti ordini di servizio in violazione di leggi esistenti (ordini che configurerebbero il reato di abuso d’ufficio e danneggerebbero i docenti che se li vedessero imporre).
C’è di più: un dipendente ha l’obbligo di non eseguire un ordine superiore se l’atto richiesto è vietato dalla legge penale. Lo confermano l’art 1 comma 10 del vigente contratto, l’articolo 146 del contratto 2006-2009, e soprattutto l’art. 17, c. 3 del DPR 10 gennaio 1957, n. 3. Tra l’altro, imporre di non eseguire ordini illeciti (quale sarebbe quello di compiere atti non previsti dalla normativa, come scrutini e promozioni online) è proprio l’imperativo categorico kantiano. A meno che non si voglia incorrere nella banalità del male. O nella “googlificazione dell’istruzione” (come la definisce Anna Angelucci). O nel 6 politico generalizzato. O nell’abolizione del valore legale del titolo di studio
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