I lettori ci scrivono

Didattica a distanza, maturità e tanto altro: la scuola ai tempi della pandemia

È proprio vero che quando i consueti parametri del reale si invertono, quando l’alto diventa  basso e il più diventa meno, chi prima arrancava all’improvviso sembra risorgere. È la dimensione antropologica del carnevale che si manifesta in guerra o durante le grandi epidemie. Ed è quanto accade a Zeno Cosini, totale inetto nella vita ‘normale’ ma che, in tempi di guerra, si eleva al di sopra di chi prima ce la faceva ed ora invece barcolla e fatica incapace ad adattarsi ad un paesaggio profondamente mutato o addirittura capovolto.

Non ci vuole molto a riconoscere in queste dinamiche, la vicenda che ha visto protagonista la scuola ai tempi della pandemia. Fino a pochi mesi fa continuamente vilipesa, delegittimata in tutte le sue funzioni, antipatica e mal tollerata, diviene all’improvviso salvatrice della patria, subito dopo la sanità. La didattica a distanza, la capacità di essere presente nella vita degli studenti garantendo loro, prima ancora che il diritto allo studio, una routine alla quale attaccarsi e una quotidianità scandita da impegni, lezioni on-line, compiti in modalità nuove ma estremamente efficaci che, all’improvviso, tutti ci si rende conto di possedere e di saper usare, insomma: la scuola italiana c’è e, sorprendentemente, funziona! E allora che bravi gli insegnanti, la colonna vertebrale della società, il punto fermo, i fari nel buio, gli dèi. Se non fosse che al terzo o quarto giorno di quarantena qualche politico avesse già proposto la sospensione dello stipendio a chi stava a casa in panciolle e, in generale, i discorsi che si sentivano fare negli ultimi baluardi di socialità, erano i soliti: tutti in vacanza e per di più pagati. Aggiungiamo questo privilegio ai tre mesi di vacanze estive, le tre settimane natalizie, la settimana pasquale e le sole 18 ore di lavoro settimanali e davvero il lavoro dell’insegnante è quanto di meglio si possa fare (a proposito, si può fare, non è una casta nella quale si entra solo se si discende da insegnanti).

In effetti, quando ho preso la prima laurea, il diploma di specializzazione, la seconda laurea e i vari master, quando ho lavorato da precario per 15 anni, quando ho fatto il pendolare, avevo pensato proprio a questo: se un giorno ci fosse una pandemia e tutti fossimo costretti a stare a casa, l’insegnante sarebbe certamente il lavoro che più mi tutelerebbe. Aggiunsi i tre mesi estivi, il Natale, la Pasqua e il lauto stipendio mensile più tredicesima, ed ecco che la scelta fu facile! Sono stato davvero fortunato poiché ho goduto anche della pandemia, ennesima occasione per rubare lo stipendio. Mi sento davvero un privilegiato! Tanto più che in queste settimane sono stato, insieme a tutti i miei colleghi, in vacanza sul divano pagato, onorato dai titoli sul giornale, dalle parole alla radio (la tv non la guardo e dunque non ho idea di cosa si sia detto) e da tutta una serie di salmodie provenienti da ogni dove che, per un istante, mi hanno fatto credere che la scuola, e in parte anche l’antipaticissima classe insegnante, stessero riguadagnando un po’ del loro valore, del loro senso, addirittura della dignità che, da anni, sistematicamente e continuamente, avevano perduto sotto i colpi di una società e di una politica solo capaci di massacrarle.

Lo confesso, per un attimo ho sognato. È stato un bel sogno che, in quanto tale, è durato pochissimo.

Durante la pausa pasquale (pure la pausa pasquale ci siamo fatti!), ecco che arriva quello che, secondo me, è il colpo di grazia. I titoloni a quattro colonne sui quotidiani nazionali annunciano: ‘QUEST’ANNO TUTTI PROMOSSI; ‘L’ESAME DI MATURITÀ SARÀ UN PROFORMA’; ‘SOLO UN COLLOQUIO ON-LINE PER I MATURANDI’ e via dicendo su questi toni. Affermazioni che delegittimano totalmente il nostro lavoro e il nostro impegno nel mantenere viva la scuola, l’istruzione, l’educazione e la cultura e, cosa ancor più grave, tolgono ai ragazzi quello stimolo quotidiano che ancora poteva regolare le loro esistenze in questo delicato momento nel quale da un lato avevano visto, inizialmente, realizzato il loro sogno, (una vita sul divano tra serie tv e social…la vita dell’insegnante insomma), ma da un altro, e lo so perché li vedo, parlo loro, domando come stanno, vivono questa situazione surreale con pochissimi mezzi per leggerla, comprenderla, elaborarla e scoprono, incredibile ma vero, che il tran-tran scolastico, le lezioni, i compiti, studiare, addirittura leggere sono ottimi mezzi per sentirsi vivi e non in stand-by, in attesa che il mondo si rimetta, all’improvviso e miracolosamente, in marcia. Per un attimo ho pensato, e l’ho detto loro, che questa esperienza è quanto racconteranno ai loro figli. Io, che sono del ’72, ai figli che non ho racconto i lustrini e le paillette degli anni ’80 e mi sono sempre sentito terribilmente inadeguato rispetto a chi mi raccontava di grandi esperienze come la guerra e pure il dopo guerra. Per un attimo ho avuto la conferma ad un pensiero, forse una speranza, talvolta invece una certezza, che mi accompagna da tempo e cioè che loro diventino adulti migliori di noi, certamente di me.

Ma poi la politica e l’informazione (qualcuno mi spiega come funziona l’informazione, chi decide cosa pubblicare sui giornali, sulla base di quali criteri?) annunciano che tutto quello che si sta facendo è inutile poiché, tanto, l’anno scolastico è già finito. E allora sì che la tentazione di mettermi sul divano mi viene, eccome se mi viene. Chi, infatti, e per comprenderlo non credo ci vogliano le lauree in psicologia, sociologia, scienze della formazione e quant’altro, troverà stimoli per seguire lezioni, fare compiti, studiare? Siamo certi di poterci appellare esclusivamente alla responsabilità individuale che porti il singolo studente in una situazione per di più così singolare, a dirsi: ‘studio per me’? Mi dispiace, ma questo alto senso di autodeterminazione non è nel DNA degli italiani i quali, si sa, preferiscono non faticare per ottenere il risultato poiché la furbizia e la fortuna sono valori, cultura e intelligenza, meno.

Personalmente ho già registrato, nei tre giorni dopo le vacanze, diverse ‘alterazioni’ a quanto messo in piedi fino a prima della pausa pasquale e prima degli articoli brillantissimi di cui sopra: più assenze alle lezioni on-line (ho sempre avuto praticamente il 100% dei presenti), richiesta di un minor carico di ore settimanali, di compiti, mancanza di puntualità nelle consegne (cosa mai accaduta prima). Insomma, una sorta di improvviso rilassamento generale. E non mi riesce proprio di attribuire la colpa ai ragazzi. Stanno vivendo una situazione difficilissima da gestire emotivamente; comprendo bene che si attacchino a quelle poche pseudogioie come l’essere promossi senza fatica per strappare una sardonica risata alla faccia del mondo, del virus, dei professori e di tutto il resto. Lo confesso: è quanto avrei fatto anch’io alla loro età e in questa situazione, sempre se non avessi dato di matto prima. C’è bisogno di qualche consolazione in questo clima apocalittico, e a questa ci si può attaccare tanto più che si è legittimati da politica, informazione e società che possono finalmente tornare a inveire contro la scuola, gli insegnanti e tutto quanto è cultura, istruzione, educazione, tutte cose con le quali non si mangia (eccetto ovviamente noi insegnanti che rubiamo il pasto quotidiano). No, non riesco a prendermela coi ragazzi, a rimproverarli e richiamarli all’ordine. È tutto il sistema che mi risulta imperdonabile e insopportabile oltre che incomprensibile. Mi sembra, a questo punto, di portare avanti un teatrino del quale, forse, troviamo il senso solo noi insegnanti, mentre tutto intorno c’è il vuoto quando non addirittura l’ostilità per il fatto che quest’anno a me toccano sei mesi di vacanze, anzi di ferie, parola più consona a definire quelle che fa l’insegnante. Intanto nessuno si scandalizza del fatto che i famosi 600/800 euro andranno, in molti casi, in tasca a persone che guadagnano in un mese il mio stipendio annuo; ma quelle si sa, sono le categorie potenti che tanto piacciono agli italiani e con le quali è bello identificarsi anche quando, eventualmente, ti rubano dalle tasche e che non ti sputerebbero in faccia nemmeno se stessi prendendo fuoco. Intanto però si chiede alla classe insegnante di dedicare il famigerato ‘bonus’ alla beneficenza. Nessuno se la prende con la politica che in settant’anni ha rubato l’irrubabile e che, a causa di ciò, oggi non è in grado di gestire un’emergenza come questa poiché le risorse necessarie sono finite chissà dove (in realtà lo sappiamo bene dove) e quindi manca tutto, dalle strutture ai presìdi di base, agli ammortizzatori. Aggiungo: cosa accadrebbe se dalle pagine dei giornali ci si rivolgesse ai medici dicendo loro: faticate pure 24 ore al giorno per salvare vite, tanto si deve comunque morire. Crediamo davvero che se ne starebbero zitti? Ecco, la cosa a me incomprensibile della classe insegnante è questa capacità di sopportare. Davvero mi viene da pensare che si tratti del senso di colpa per i milioni di privilegi di cui godiamo e che valgono certamente il fatto che tutti, dai genitori (degli studenti, ma spesso pure nostri!) agli amici, dai giornalisti ai politici, ci diano addosso quando l’unico, immenso, impagabile privilegio che abbiamo è quello di stare con i giovani, di stare con il futuro, noi che studiamo autori morti da secoli, lingue defunte, mondi sommersi e teoria, tanta teoria perché chi sa fare sa, chi non sa fare insegna. Chi non è mai entrato in una classe di adolescenti non lo potrà mai capire: l’energia, magari latente e che spetta a te tentare di attivare, la sensazione chiara di trovarsi di fronte al mare delle possibilità, il sapere che, per quanto darai, ti ritornerà sempre qualcosa di più poiché anche quando solo uno di quei giovani alza lo sguardo destato da qualcosa che hai detto, ecco che il miracolo è già avvenuto ed è allora che ci si sente dei veri privilegiati, senza malinconie da attimo fuggente perché non siamo lì a farci dire ‘bravi’, semmai a farci dire ‘grazie’, ma senza che ce ne sia poi questo gran bisogno.

Da qui è naturale il passaggio ad una considerazione sulla tanto celebrata didattica a distanza. Lo si dica una volta per tutte: la usavamo, in molti, anche prima: per gli studenti ospedalizzati, per chi era a casa per lunghi periodi, per facilitare, o integrare, il lavoro degli altri. Non massicciamente come ora, certamente, ma la scuola non ha scoperto una nuova possibilità; ha solo incrementato l’utilizzo di un mezzo poiché, al momento, non ne può utilizzare altri. Mi perdonino i colleghi, ma non c’è eroismo nell’utilizzare un’applicazione di Google, ci mancherebbe altro che non ne fossimo in grado. Però, detto ciò, la didattica in classe è meglio e i primi a dirlo sono i ragazzi, anzi, erano i ragazzi perché al pensiero del ‘tutti promossi’ è evidente che ora tendano a preferire questa modalità. Magari chissà, arriveranno a preferire anche la pandemia rispetto al ritorno ad una normalità che comporterà anche il ritorno alla fatica. Ma l’insegnante tace, tace sempre, dibatte con i colleghi più stretti, scrive una mail al Collegio Docenti che quasi mai viene letta perché ‘ci manca anche che mi metta a leggere le frustrazioni del collega con tutte le cose che (non) ho da fare’. E si va avanti così, come quando ci dissero che accompagnare i ragazzi in gita comportava, da parte nostra, l’assunzione delle responsabilità relativamente alle condizioni del mezzo di trasporto e dei conducenti. Andavo in Sicilia quell’anno e fui tentato di ispezionare adeguatamente l’aeromobile su cui avremmo viaggiato, ma non ho grosse competenze in merito alla meccanica dei velivoli. Certo, se avessi fatto un bel corso di aggiornamento, sarei stato in grado di verificarne lo stato di salute per passare poi a quello dell’equipaggio: vuoi mai che un pilota beva, si droghi, abbia dei problemi con la moglie e accarezzi il pensiero di farla finita proprio quel giorno. Io devo saperlo prevedere poiché, in caso di disgrazia, la colpa sarebbe la mia in quanto non sarò stato in grado di garantire la salute e la sicurezza dei miei studenti. Ma a quale categoria professionale, o pseudotale, vengono poste queste richieste con tanto di circolare ministeriale che giunge all’improvviso sui tavoli delle aule insegnanti e che sei costretto a firmare senza fare obiezioni? Per non parlare della gestione della privacy che non approfondisco poiché provoca in me un tale senso di sconforto da farmi pensare che davvero dovrei trovarmi un lavoro vero. Eppure, muti. Tutti in gita incrociando le dita (che slogan! Si vede che ho letto tanti libri. Sono anche bravo a scrivere i biglietti di auguri). E ci si va tutti, alimentando inoltre il sistema tutt’altro che virtuoso che gestisce i viaggi d’istruzione, perché altrimenti ci rimettono i ragazzi e noi non ce la sentiamo di negare loro il piacere del viaggio con i loro compagni, le scorribande notturne nei corridoi degli alberghi, qualche imprudente eccesso che ci troviamo a gestire con un po’ di buonsenso da una parte e il terrore che qualcosa possa andare storto dall’altra. Personalmente, quella in Sicilia fu la mia ultima gita. L’anno successivo, lessi alla classe che tanto avrei voluto accompagnare all’estero, la circolare ministeriale e tutti i miei studenti, con dispiacere ma comprensivi, mi dissero che avevo ragione, che era una presa in giro, che facevo bene a oppormi. Grazie ragazzi! A voi un sincero grazie per la comprensione che altrove si fa sempre più fatica a trovare. Lo stesso silenzio, ora, si ode anche di fronte ai pericoli, perché i pericoli ci sono, di venire lentamente sostituiti dalle lezioni on-line, dalla scuola in tv, dalle piattaforme delle case editrici, dai tutor digitali o da Alessandro D’Avenia per le materie umanistiche e Alberto Angela per tutto il resto che faranno lezione on-line da un atollo nell’Oceano Indiano sorseggiando un drink in bermuda e abbronzatura; la qual cosa è certamente più figa che il prof malvestito nell’aula polverosa di una scuola che l’ultima volta che ha visto vernice e pennello è stato tra le due guerre. È questo il sogno di tanti, forse di tutti. E dopo chi si invidierà disprezzandolo? Perché tutti gli incapaci che popolano il mondo dei social e della televisione e che magari sono lì non certo per meriti ma per qualche altra attitudine non certo onorevole, non sono né invidiati, né disprezzati: sono adorati! Ma va bene così. Quando avverrà, come avviene ogni volta che si procede a infliggere l’ennesimo colpo alla scuola, nessuno alzerà un dito: siamo stati troppo zitti in tutti questi anni e così facendo, a lungo andare, si perde la voce. Forse qualcuno aprirà la bocca, ma non uscirà nulla, magari un sussurrio che nessuno sentirà, proprio come queste mie parole per le quali già sento la spinta fortissima a scusarmi. Torno sul divano. Ho uno stipendio da rubare.

Michele Collina

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