I lettori ci scrivono

Didattica a distanza, non è solo una questione semantica ma di sostanza

In tutta franchezza, dopo più di un mese di lavoro h24 (la formula h24 è stata usata dalla ministra Azzolina in un suo video rivolto al mondo della scuola) profuso da tutto lo staff del Ministero dell’Istruzione, mi sarei aspettato qualcosa di più sostanzioso dal Decreto scuola partorito, finalmente, lunedì pomeriggio. Dopo le tante bozze che si sono susseguite nell’ultima settimana, mi ritrovo a leggere le solite due, misere, righe relative alla cosiddetta didattica a distanza.

Il personale docente assicura comunque le prestazioni didattiche nelle modalità a distanza.

Mi sarei aspettato maggiore coraggio nell’imporre al corpo insegnanti, in modo chiaro e categorico, con un imperativo inequivocabile, una pratica improvvisata e discutibile che nulla ha da spartire con la didattica “vera” che richiede ben altre “connessioni” tra studenti e docenti. Avrei gradito una formulazione virile del tipo: Il personale docente è obbligato a svolgere l’attività didattica in modalità a distanza in sostituzione di quella in presenza ecc. ecc., in cui, il peso coercitivo del legislatore, fosse palesato in modo fulgido e a caratteri cubitali. E invece mi trovo in presenza di un’indicazione blanda, ambigua, al limite del travisabile, come era avvenuto nel precedente decreto che non chiariva affatto se la cosiddetta didattica a distanza fosse su base volontaria o meno. Pensavo, a dire il vero, di meritare ben altre indicazioni e chiarimenti ed eventuali prescrizioni in merito ad un’attività lavorativa improvvisata e approssimativa che ha palesato ben più di una criticità in appena un mese di applicazione.

Signora ministra, non è solo una questione semantica ma di sostanza.

Perché ci si ostina a definire didattica (nel caso specifico a distanza) l’attività svolta dai docenti che non è, ahinoi, destinata a tutti gli studenti italiani? Perché ci si ostina a definire didattica una prassi improvvisata che non riesce a portare avanti i programmi, seppur in versione ridotta? Perché ci si ostina a definire didattica una pratica non sperimentata prima in larga scala che non è capace di formulare e assegnare delle valutazioni oggettive e sensate agli studenti? Perché si continua imperterriti a considerare didattica un’azione che è semmai di sostegno e di supporto alla conoscenza e all’arricchimento culturale dei discenti che possono ricevere solo delle rassicurazioni, dei consigli e delle indicazioni di natura pedagogica dai loro professori? Perché non si è compreso, fin dal primo momento, in un attimo, dopo mezz’ora, un’ora al massimo, e non elucubrando h24 che la didattica a distanza disorganizzata e accomodata, come quella che si poteva mettere in piedi in questa fase di emergenza, non è percorribile seriamente né, oltretutto, opportuna e perequativa?

Del resto, credo sia la stessa ministra Azzolina, in primis, a non credere affatto alla sensatezza e all’eventuale valore di quella che ci si ostina a definire didattica e che si esplica, miracolosamente, on-line, grazie alla rete.

Imponendo il passaggio alle classi successive a tutti gli studenti e assicurando l’esame di stato, indistintamente, anche a quelli che hanno collezionato gravi e innumerevoli insufficienze nell’arco del primo quadrimestre (quello della didattica vera e in presenza) senza neppure tener conto dell’eventuale reiterata insufficienza conseguita partecipando all’attività messa in atto dopo il 3 marzo grazie alle piattaforme private, mi pare che si sia definitivamente gettata la maschera.

In più occasioni, del resto, la ministra si è lasciata scappare che il vero scopo di questa fantomatica e non meglio precisata didattica a distanza, non è tanto lo svolgimento dei programmi riadattati all’uopo, l’acquisizione di nuove conoscenze e/o abilità da parte degli studenti, l’attribuzione di valutazioni sommative da affibbiare agli alunni dopo aver svolto compiti, esercitazioni o fantasiose interrogazioni sul web, ma soprattutto, e semmai, quello di stare vicino ai ragazzi, di incoraggiarli e sostenerli, di aiutarli anche dal punto di vista emotivo in questo momento così difficile. Far sentire, insomma, agli studenti che la scuola c’è ed è viva.

Forse l’ansia di mostrare risolutezza ed efficienza, ovviamente solo di facciata, per giustificare l’operato e il lavoro di tanti docenti costretti a sgobbare h24 per stare accanto ai propri alunni (per supportarli e per indurli a trascorrere il tempo in modo costruttivo) ha fatto sì che questa messinscena della cosiddetta didattica a distanza fosse perfino credibile, agli occhi di molti, per circa un mese.

Quello bisognava dire, da subito e in tutta franchezza. Agli insegnanti e agli studenti. In queste condizioni non c’è didattica a distanza che tenga. Sarebbe stato stupendo poterla mettere in campo se solo fosse stata “matura” e praticabile in maniera sensata. È importante che i docenti siano impegnati; è fondamentale che gli alunni siano confortati e aiutati a trascorrere le loro lunghe giornate in modo organizzato e costruttivo. Tutto qui, nulla di più.

Quello assegnato al Ministero dell’istruzione era, in fondo, un compito abbastanza facile. Sarebbe bastato guardare in faccia la realtà, capire al volo che la didattica a distanza totalmente disorganizzata, senza essere mai stata sperimentata e attuata da tutti gli insegnanti su tutto il territorio nazionale, che non riesce a raggiungere tutti gli studenti non è ragionevolmente, moralmente ed eticamente proponibile.

Molto più arduo è, invece, il ruolo assegnato ai docenti italiani.

Ivano Marescalco

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