L’abbiamo sempre data per scontata… la libertà. Poi arrivano certe ventate della storia e la cancellano, in un attimo. Mariangela Gualtieri, l’ha scritto in modo mirabile: adesso lo sappiamo quanto è/ triste/ stare lontani un metro. Quello che ci manca è l’alterazione della nostra natura di animali sociali, fatti strutturalmente per la relazione. Ma c’è l’epidemia, va così, dobbiamo accettarlo: distanziamento sociale, contenimento del coronavirus.
Eppure c’è uno spazio in cui è proprio inaccettabile la perdita della libertà, perché si tratta di una dimensione in cui nulla, neppure l’emergenza sanitaria, la giustifica: lo spazio della scuola.
Se ne è parlato tanto, giornali e notiziari hanno affrontato il tema della didattica a distanza, hanno considerato tutte le sfaccettature della questione: indigestione di tecnologia, connessioni che non sempre reggono, collegamenti live tra docenti e studenti, videoconferenze che salvano la dimensione dialogica e relazionale della scuola, docenti che fanno tanto, si industriano ad usare piattaforme, vanno oltre il loro orario di servizio inseguendo la disponibilità di reti sovraccariche, si sforzano di alleggerire situazioni complicate, reprimono il più possibile la loro tristezza, ansia, preoccupazione, cercando di far emergere compostezza, competenza, professionalità. Tutto bene.
Poi, il 17 marzo, il Ministero dell’Istruzione pubblica la nota 388: “Indicazioni operative per le attività didattiche a distanza”. Si delineano adempimenti, quadri di riferimento: in breve, imposizioni che incombono come una scure su una realtà già umanamente affaticata – come è ovvio, dato il momento emergenziale – e, soprattutto, tecnicamente disomogenea
– per preparazione informatica di docenti e studenti;
– per dotazioni strumentali da parte delle famiglie, non sempre in possesso di tanti pc quanti sono, in ciascun nucleo, i figli che devono interagire a distanza con i loro professori;
– per contratti che i privati mettono a disposizione allo scopo di sostenere tutto quello che il Ministero richiede, ma che economicamente in questo momento critico proprio non può pretendere. Ogni collegamento per la scuola, che è pubblica, sta paradossalmente, infatti, ricadendo come onere sui privati, e si tratta di molte ore di connessione pro capite, dunque di un aggravio economico non indifferente: gli insegnanti “offrono” costantemente il loro lavoro (tempi di connessione non contabilizzati che esorbitano dal normale orario di servizio, trascorsi a selezionare, visionare, caricare materiale didattico che agevoli lo studio degli allievi, ore impiegate a leggere e inviare a mail, rispondere a post su piattaforme, messaggi); docenti e famiglie forniscono a titolo personale e gratuito anche i mezzi necessari alla realizzazione della didattica a distanza (computer, contratti con gestori telefonici, energia elettrica, cavi di connessione). Chi poi non usufruisce di abbonamenti fissi (non si può certo imporli) e deve ricaricare i router per le connessioni è immaginabile che sia in difficoltà: centri di assistenza non sempre aperti, lunghe file, complicazioni per le uscite, ora disciplinate dai provvedimenti governativi.
Dunque, quando la nota ministeriale a p. 2 usa l’espressione “sostenibilità operativa, giuridica e amministrativa”, sceglie un lessico completamente dissociato dalla realtà.
Miopia istituzionale?
Veniamo, ora, al piano giuridico delle indicazioni ministeriali e alla loro presunta sostenibilità. La nota intende disciplinare che cosa sia “didattica a distanza” e che cosa si allontani da tale definizione.
Molti sono i dubbi che tale comunicazione solleva.
Il primo riguarda la “gestione privacy”: l’invito del ministero è di evitare ogni forma di profilazione (p.4). Noi docenti lavoriamo su piattaforme didattiche insieme ai nostri studenti. Come è noto tutto quello che su tali piattaforme viene scritto e pubblicato resta nell’etere, con tutti i rischi connessi a tale realtà, come ha notato M. Ferraris nel suo saggio Mobilitazione totale, la cui lettura è vivamente consigliata ai funzionari del ministero. Noi insegnanti non siamo informatici e più di quel che facciamo non sappiamo né possiamo fare. Chi scrive, per esempio, è esperta di epigrafia e storia romana d’età imperiale e ha fatto suo il monito latino non ultra crepidam, pertanto non può improvvisare competenze tecniche che non possiede e che esulano dal campo della sua formazione.
In secondo luogo il documento ministeriale richiede una riprogettazione, rimodulazione delle programmazioni attraverso una “costante interazione tra docenti” (p.4): “costante” significa stabile, continua, ininterrotta, dunque, evidentemente, comprensiva di svariate ore non contrattualizzate. Si può davvero chiedere tanto? Tutti conoscono la situazione d’emergenza: a chi mai gioverebbe un simile zelo certificativo, una simile ipertrofia esplicativa? E questa si chiama “sostenibilità giuridica”? Diceva Roosevelt: fai quello che puoi, con quello che hai, nel posto in cui sei. È una lezione che noi insegnanti applichiamo quotidianamente.
Insomma, regolamentare processi di insegnamento in un momento difficile, confuso, come quello attuale, appare proprio una contraddizione o, comunque, è espressione di una grave mancanza di rispetto per la dignità delle persone che stanno investendo energie fisiche, intellettuali, economiche per la buona riuscita di qualcosa cui nessuno era davvero pronto. Senza voler fare inopportuni paragoni, Romano Luperini ha chiarito che l’impegno degli insegnanti nei giorni della pandemia è certo meno drammatico e decisivo ma non meno prezioso di quello dei medici in prima linea: costruire, sostenere, tenere insieme il tessuto valoriale e culturale delle giovani generazioni, senza cedimenti, affinché non crolli, è un compito che non conosce soste. Gli insegnanti, certo, non salvano vite, ma formano chi un giorno potrebbe essere chiamato a farlo, chi dovrà fare leva sulla propria scienza e sulla propria coscienza, dimensioni che si costruiscono a scuola.
In definitiva, “normare” i processi didattici ora, sull’onda critica della situazione dettata dal COVID-19, significherebbe dare normalità a una situazione che normale non è. La didattica a distanza deve restare un’anomalia emergenziale, perché la distanza non è affatto espressione di una buona didattica, che si nutre, invece, di relazioni fisiche, di emozioni vive. E poiché insegnare significa saper attuare varie forme di intervento che non si possono certo esaurire in videoconnessioni che saltano, ritornano, si interrompono di nuovo, sarebbe il caso che il ministero abbandonasse velleità di regolamentazione, eccessi di verbosità normativa, tentativi surrettizi di normalizzazione, prove tecniche di svecchiamento della scuola. Non si può dimenticare che agli occhi di qualcuno – con gusto macabro e cinico – il COVID-19 è apparso addirittura “un’occasione” di rinnovamento della macchina scolastica.
Pertanto, il mondo della scuola chiede l’assoluta e immediata revoca della nota 388 del 17.03.2020.
L’articolo 33 della Costituzione non va dimenticato. Deve essere lasciata ai docenti la libertà di decidere COME organizzare la propria attività, senza troppi paletti burocratici, senza derive centralistiche e autoritarie, senza fanatici entusiasmi tecnologici: il pericolo concreto consiste nell’esautorazione totale degli organi collegiali, nella riduzione al silenzio delle mediazioni sindacali, nell’evaporazione di quello che resta di un’idea democratica della scuola.
Noi docenti accettiamo, ora, per necessità, il carattere sperimentale, emergenziale della didattica a distanza, ma sappiamo bene che non è questa la normalità. La scuola è libertà.
Teresa D’Errico