L’organizzazione didattica della scuola moderna prevede il riconoscimento di un solo tipo di differenza, quella per età. In realtà, in una stessa classe si osservano tali differenze da rendere spesso inefficace un insegnamento collettivo.
A partire dalla legge n. 517 del 1977 la scuola italiana si è fatta carico delle diversità più significative, quelle che investono gli allievi con disabilità. Più recentemente, con la classificazione degli alunni secondo la formula dei BES, si è allargato il campo delle differenze da riconoscere.
La scuola, però, non ha modificato la sua organizzazione generale. Semplicemente, ha allargato il campo dei soggetti a cui porre maggiore attenzione attraverso la formula della “pedagogia del sostegno”.
Con la “pedagogia del sostegno” la differenza è considerata un problema di alcuni soggetti e dunque può essere affrontata senza modificare un’organizzazione didattica collaudata per gli allievi “normali”.
In realtà, il metodo classificatorio così caro agli anglosassoni è sempre rischioso perché medicalizza il problema invece di investire la pedagogia delle sue responsabilità di emancipazione di tutti i soggetti. Questo metodo di classificazione delle differenze è stato in realtà un modo per continuare a non affrontare il problema reale: quello della diversità di tutti gli allievi, anche se alcuni un po’ di più di altri.
Se la pedagogia vuole emancipare perseguendo apprendimenti efficaci per tutti non rinchiudendo i soggetti nelle loro presunte “doti” di partenza deve organizzare le attività in modo flessibile attraverso diverse forme di differenziazione didattica.
Non per confermare le disuguaglianze, ma per cercare di ridurle attraverso il perseguimento di obiettivi comuni, sia pur a medio e lungo termine.
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