Dopo i continui inviti ministeriali a privilegiare l’educazione manageriale, le discipline “STEM” e il digitale, oggi l’insegnamento della lingua e della letteratura latina è ancora più “inutile” di ieri?
Convinti del contrario, abbiamo già affermato con forza, in precedenti articoli, l’importanza di studiare le letterature: a partire dalla lingua e dalla letteratura italiane, mentre il pensiero unico imperante pianifica nell’inglese la propria “lingua unica”. Per questo crediamo vada pure rimarcata la necessità e l’urgenza di studiare la lingua latina, fondamento dell’italiano e delle altre lingue neolatine (un miliardo di parlanti) nonché di quelle germaniche, come il tedesco (novanta milioni di parlanti) e l’inglese (un miliardo e mezzo).
I popoli neolatini, gli inglesi e i tedeschi — soprattutto se colti — comprendono l’importanza del latino. Il cui studio è considerato essenziale e formativo persino nella remota Finlandia, pur mai toccata dall’Impero Romano (e spesso osannata dai detrattori della Scuola italiana). Per 30 anni (1989-2019), la radio di Stato finlandese ha trasmesso un giornale radio in latino cadenza settimanale, intitolato “Nuntii Latini” (ossia “Notizie in latino”), i cui podcast sono tuttora disponibili in rete. Eppure la lingua finlandese non è certo neolatina (e nemmeno indoeuropea)!
Follia finlandese? O vera lungimiranza?
Meno lungimiranti (o forse più miopi?) gli italiani — compresi molti di quelli colti —sembrano non comprender più l’importanza della cultura latina (figlia e madre della civiltà italiana) per la crescita linguistica, mentale, culturale dei propri figli. L’avversione allo studio della latinità è trasversale in Italia classi sociali e parti politiche. Schierati per l’oblio della latinità sono gli epigoni italioti dell’estrema destra (dimentichi di Gentile, raffinato — ancorché discutibile — filosofo) e per quelli dell’estrema sinistra (che non hanno letto Gramsci, o non lo hanno compreso, e identificano la romanità con l’uso distorto che ne fece il fascismo).
La destra, un tempo custode dei “sacri valori della Patria” (quando a scuola andavano solo i ricchi), ha cambiato idea su questi valori allorché anche i figli del popolo hanno avuto accesso a cultura alta e studi classici: questi ultimi sono stati allora dipinti come “inutili” per i ceti popolari (i quali — secondo visioni classiste della società ricordate anche dallo storico Alessandro Barbero — dovrebbero solo imparare mestieri manuali, “utili” ai “datori di lavoro”): concetto oggi ribadito dal ministro Valditara.
La sinistra, inviluppata nel medesimo tranello classista, ritiene che i figli degli operai non vadano “tormentati col latino”.
E così, col sostanziale accordo di tutti, nel 1977 fu abolito il latino nelle Scuole Medie; e nel 2008 la controriforma Gelmini/Tremonti/Berlusconi (mai abolita dai governi successivi) massacrò le cattedre letterarie del Liceo Classico, con danno degli studenti, che oggi si ritrovano spesso un docente per l’italiano (con un quinto del monte ore in meno), uno per il latino, uno per il greco, uno per storia e geografia (la fantomatica e risibile “geostoria”, con un quarto del monte ore in meno e la fine de facto della geografia). Oggi solo un Sindacato di base della Scuola chiede il ritorno del latino nelle Scuole Medie e la cancellazione delle controriforme successive.
Il massacro delle materie letterarie è il massacro della Scuola. Tutti contenti, però: l’importante è imparare digitale, inglese, competenze manageriali e discipline STEM. Salvo poi meravigliarsi (e dar colpe alla Scuola) se gli studenti italiani sono sempre più marchianamente ignoranti (e gli adulti di ogni strato sociale spesso grossolanamente cafoni, distinguendosi all’estero per il proprio inurbano comportamento).
In latino (lingua viva della scienza nei secoli passati e dei ceti colti fino a un secolo fa) sono state scritte pagine di letteratura imprescindibili per comprendere l’umanità stessa in tutte le sue sfumature culturali, etiche, emotive, psicologiche. Se soltanto la letteratura permette la comprensione reciproca delle diverse culture umane (in un mondo in cui i popoli si mescolano irreversibilmente), occorre andare alle fondamenta della letteratura mondiale, studiando la letteratura latina nella lingua originale.
Secondo il fine latinista Ivano Dionigi (già Rettore dell’Università di Bologna, studioso di Seneca e Lucrezio), «La rivoluzione migratoria decreta l’eclissi della centralità dell’Europa e del primato dell’Occidente, quasi richiamato ricordare la sua etimologia, “il mondo che tramonta”; e la rivoluzione tecnologica rende tutto istantaneo e planetario, con la conseguenza di dilatare lo spazio e mortificare il tempo. Ci viene consegnato un mondo ametrico, senza misura, ed eccentrico, senza centro, nel quale faticano a trovare casa le nostre consolidate e rassicuranti identità culturali, professionali, personali. Di fronte a questi scenari, che creano smarrimento e paura, – come ci ammoniva Spinoza – è necessario «né irridere né compiangere né disprezzare, ma capire le azioni umane». Sì, intelligere, vale a dire “cogliere (legere) il dentro (intus) e la relazione (inter) delle cose”. Servono non opinioni (doxai), ma — direbbe Empedocle — «pensieri lunghi» che facciano da sutura tra la frammentazione dei saperi, da connessione tra i vari punti, da relazione tra le singole parti. I conflitti sono sempre di ignoranza, mai di cultura; e la prima difesa della democrazia è la difesa dell’intelligenza».
La latinità è il fondamento antico su cui basare il moderno nostro “intelligere”, per il presente e per il futuro. Si può solo fingere di non capirlo.
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