Didattica

Didattica orientativa sin dalla scuola primaria? Ecco perché no

Eliminare lo studio fine se stesso: su tutto prevalga il lavoro, e al lavoro si finalizzi lo studio. Il la a questo concerto lo ha dato, il 17 novembre scorso, nel salone Orientamenti di Genova, la “carta di Genova” sull’Orientamento, approvata dalle commissioni X (Istruzione, Università e Ricerca) e XI (Formazione e Lavoro) della Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome (il cui Presidente è dal 9 aprile Massimiliano Fedriga, Lega Nord).

Orientare ogni alunno al lavoro fin dalle elementari

Il documento “di proposta programmatica”, «condiviso all’unanimità», è stato redatto — secondo il comunicato stampa — “per la riforma dell’orientamento a tutti i livelli”. Contiene richieste inequivocabili: “didattica orientativa a partire dalla scuola primaria”; “inserimento nell’organico” di ogni scuola “del profilo professionale dell’orientatore”; formazione dei docenti sulle “attività di orientamento trasversali e funzionali alla didattica orientativa”; “evoluzione del Ptco [sic]”, “con logica orientativa e interattiva con le realtà del territorio”; “orientamento con attività laboratoriali di almeno 30 ore in tutti i livelli di istruzione”.

Avete letto bene: orientare ogni alunno al lavoro per tutto il percorso scolastico, fin dalle elementari.

Melodia ripresa all’istante dal Ministro Bianchi. Il 30 novembre Il Fatto Quotidiano ne riporta le parole, proferite al Job&Orienta di Verona (vetrina dell’ideologia della scuola come orientamento al lavoro): elogi alla “Carta di Genova” e promesse di armonizzazione coi piani governativi sulla Scuola. Già su Rai1 Bianchi (i nostri lettori lo sanno) aveva ribadito che «Le imprese oggi hanno bisogno di persone specializzate, molto flessibili e creative, perché siamo in una fase di straordinario cambiamento. Il modo migliore è accompagnare i ragazzi, sin dalle scuole medie, a vedere cosa sono e come si stanno trasformando le imprese».

Le imprese salveranno la Patria

Urge, insomma, trasformare la Scuola nazionale a immagine e somiglianza delle imprese, secondo un’ottica neoliberista che (a dispetto dell’ideologia neoliberista della “libera concorrenza”) non ammette concorrenti e non fa prigionieri. L’interesse della Patria è quello delle “imprese” (tutte indistintamente, senza distinguo tra piccole, medie, gigantesche e multinazionali). La collettività diventa invisibile, non è più un valore, non se ne parla, dando per scontato che, se stanno bene le “imprese”, stanno bene tutti. Ma è davvero così?

Prosperità = profitti delle imprese?

Ad esempio, è così scontato che, se prosperano le imprese che traggono profitti dall’acqua pubblica, staremo bene tutti? Siamo sicuri che, se la Sanità privata si arricchisce e quella pubblica arranca, tutti saremo più ricchi e felici? V’è certezza che domani, ingrassati i miliardari italiani che fabbricano armi e mine antiuomo (e le vendono ai regimi tirannici del pianeta), anche tutti gli Italiani sguazzeranno nel benessere materiale (nonché morale)? È proprio matematicamente certo che, se le imprese (anche quelle funebri!) aumentano i propri profitti, la vita di tutti gli Italiani sarà migliore?

Un ardito salto (all’indietro) di 2.500 anni?

Che dire poi di una Scuola che formasse fin dalla prima infanzia soltanto cittadini-rotelle, strutturati nell’ottica unica del lavoro (e di un lavoro — si badi bene — tecnico, esecutivo, subordinato, mirato al profitto dell’impresa, privo della possibilità di un pensiero divergente dall’ottica dell’impresa stessa)? 

L’idea di Scuola nasce 2.500 anni fa come qualcosa di opposto a tutto ciò. In greco antico la parola “scholé” (da cui il concetto aristotelico di Scuola, in latino “schola”) designa non la preparazione al lavoro, ma il contrario esatto del lavoro: il tempo libero, il riposo, la pausa dal lavoro stesso. Concetto che i Romani chiamarono poi otium, tempo da dedicare alla philosophia, ossia all’amore per il sapere e alla ricerca della conoscenza (oggi aborrita dall’attuale Ministro e contrapposta alle “competenze“ esecutive, che il Ministro predilige). Per i Romani, negativo non era l’otium filosofico (ossia la scholé dei Greci), ma la sua negazione, cioè il negotium, il lavoro. Eppure non crediamo che il Ministro possa definire arretrati Greci e Romani, visto che il progresso scientifico, tecnologico e civile degli ultimi 500 anni ebbe origine — e la ebbe in Italia! — proprio dalla riscoperta delle conoscenze civili, tecnologiche e scientifiche degli antichi Romani e Greci.

I laureati italiani sono i migliori del pianeta: hanno studiato la Storia

Con la loro formazione umanistica di base (acquisita nelle Scuole italiane, che la leggenda metropolitana — utilizzata dalla propaganda ufficiale — dipinge come attardate e scadenti) i laureati italiani sono i più ricercati (e pagati) dalle aziende europee e nordamericane. Lo sanno questo l’economista Bianchi e il fisico Cingolani (Ministro della “transizione ecologica” sostenitore del nucleare, dell’abolizione — ma “con criteri di progressione opportuni”! — dei combustibili fossili,  nonché derisore degli ambientalisti), che se la prende con lo studio approfondito della Storia?

E perché i docenti italiani — da sempre formati per creare non esecutori da tastiera, ma cittadini dotati di coscienza critica e capaci di immaginare mondi migliori di questo — non fanno sentire la propria voce? Sono forse pagati troppo per disobbedire a una politica che li ha ridotti a travet sottopagati, sottostimati e schiacciati da some insostenibili di burocrazia e di ciarpame ideologico neoliberista?

Alvaro Belardinelli

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