Un altro modo per conoscere e capire quella immensa cultura che è anche parte delle nostre millenarie radici potrebbe essere racchiuso nei seguenti 10 capolavori del cinema mondiale che si dovrebbero proiettare in prima serata tv.
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La rivista, Al-Jom Assabeth, oggi scomparsa, stabilì quali erano i dieci migliori lungometraggi arabi della storia. Dei 45 critici e cineasti che risposero al questionario (anche artisti francesi e italiani), solo quattro erano donne. E solo un film citato, La nouba, è stato realizzato da una cineasta, l’algerina Assia Djebbar. La maggioranza dei partecipanti al sondaggio era egiziana. Tenendo conto di tutto questo ecco la classifica generale, a cominciare dal decimo. Pochissimi di questi dieci capolavori sono usciti nelle sale italiane o diffusi in vhs o dvd. Li conoscono solo gli addetti ai lavori, gli spettatori di Fuori orario e i frequentatori di festival specializzati.
Decimo posto: Kafr Kassem di Borhan Alaouié (1973, Libano), 11 voti
Alla vigilia dell’attacco contro l’Egitto del 1956, Israele dichiara il coprifuoco senza avvisare la popolazione civile. È in questo scenario che avviene il massacro nel villaggio palestinese di Kafr Kassem, vicino al confine con la Giordania. Gli abitanti, facendo ritorno dal lavoro durante il coprifuoco, vengono sorpresi da militari israeliani il 29 ottobre 1956. Furono uccise 48 persone, e tra questi 6 donne e 23 bambini e ragazzi. Due ufficiali della polizia di confine (Magav), condannati per aver illegalmente dato l’ordine di uccidere dei civili, a 17 e 15 anni di carcere, poi ridotti a 5, uscirono ben presto di prigione. Proprio dal processo – che sancì, in Israele, la legittimità di non obbedire a ordini immorali – ha inizio il film, ricostruzione meticolosa, realista e in flash back mai sensazionalistici dell’assurdo massacro.
Solamente nel dicembre del 2007 il presidente di Israele Shimon Peres ha chiesto ufficialmente scusa ai palestinesi per la strage. Stilisticamente vicino ai drammi politici d’inchiesta di Francesco Rosi, Kafr Kassem è il film più importante sulla questione palestinese assieme a Les Dupes di Tawfiq Saleh. Entrambi dovrebbero essere visti e discussi nelle scuole. Il regista Borhan Alaouié, nato in Libano nel 1941, ha studiato e si è diplomato nel 1971 all’Insas di Bruxelles (Belgio) come il palestinese Michel Khleifi, i tunisini Mahmoud Ben Mahmoud e Nouri Buzid, i marocchini Ahmed al-Manooni e Brahim Tsaki.
Nono posto: Omar Gatlato di Merzak Allouache (Algeria, 1976), 12 voti
Ritratto agrodolce, metà realistico e metà da teatro dell’assurdo, dei vitelloni di Algeri, gioventù alienata e repressa sessualmente. Il protagonista Omar è un giovane che si dà arie da macho. Impiegato al ministero delle finanze, vive in un affollato appartamento con le sorelle, la madre e i nonni. Ama la musica araba e indiana, le feste con gli amici e soprattutto le donne. Un giorno si innamora di una voce femminile ascoltata in un nastro magnetico, ma la donna è totalmente diversa da come se l’era immaginata…
Dopo la generazione di Lakhdar Hamina e Le vent des Aurès nasce così la nouvelle vague algerina. Merzak Allouache, nato nel 1944, studi all’Istituto Nazionale del Cinema di Algeri, ha esordito nel 1967 con El bouhai ed è tra i cineasti maghrebini più conosciuti nel mondo. Molto apprezzato per la sua vena umoristica, i suoi film sono stati spesso invitati dai maggiori festival internazionali.
Ottavo posto ex aequo: Les rêves de la ville di Mohammad Malas (Siria 1983) e Le péché di Henry Barakat (Egitto, 1965), 14 voti
Il primo film, parzialmente autobiografico, è un’analisi approfondita, ma stilisticamente ardita, delle classi medie siriane, e del Paese prima dell’unione siro-egiziana del 1958. Opera pluripremiata nei festival di tutto il mondo, racconta la storia di una vedova (l’attrice è la performer e regista libanese Yasmine Khlat) e dei suoi due figli costretti a lasciare la propria casa e a trasferirsi da Quneitra a Damasco, dove dovranno cavarsela da soli, senza l’aiuto del violento padre della donna. Adib, il figlio grande, cresce nella Siria degli anni 50, tra colpi di stato, magie architettoniche, turisti, moschee e violenze metropolitane. Il regista Mohammad Malas, insegnante fino al 1968, ha studiato cinema a Mosca, presso l’istituto Gerasimov (Vgik), dirigendo corti e doc. Tornato in patria, ha diretto documentari tv. Tra il 1981 e il 1987 ha lavorato a Il sogno, drammatico documento sui campi profughi palestinesi che comprende oltre 400 interviste e che bloccò dopo il massacro di Sabra e Chatila.
Le péché è la storia della sorte atroce riservata alle ragazze madri di campagna, disprezzate e ripudiate dalla società, spesso vittime della violenza e della impunità dei proprietari terrieri. Come capita in questo melodramma rustico interpretato da Zaki Roustom e dalla star Faten Hamama, a Azizah, bracciante, con un marito malato. Sfruttata e violentata, la donna cerca di sbarazzarsi di ogni traccia visibile e invisibile dello stupro… Questo classico della scuola realistica egiziana, grande successo a Cannes, è diretto da Henry Barakat (1912-1997), origini libanesi, cultura francese e famiglia copta, scuola realista, anzi “il maestro del realismo poetico”. In 55 anni Barakat ha diretto oltre 110 film di ogni genere e specie, dai melodrammi agli horror, dai thriller ai film epici.
Sesto posto ex aequo: La Volontà di Kamal Salim (Egitto, 1939) e Morti tra i vivi di Salah Abou Seif (Egitto, 1960), 15 voti
Per un rampollo della piccola borghesia egiziana, appena diplomato, il destino è segnato: dovrà diventare un funzionario pubblico. La via del commercio gli è preclusa, a meno che non sia armeno, greco, italiano o levantino…. Guadagnerebbe, certo, di più, se si mettesse in proprio, avrebbe in dotazione la tunica lunga, la gallabiah, indipendenza e più potere, ma solo il posto fisso e stabile gli permetterà di trovare una moglie…
La metafora è chiara. Non si esce dal sottosviluppo senza la formazione di una borghesia imprenditrice, libera e scatenata. Quello che l’Occidente non permetterà mai. Il primo grande film realista egiziano, senza happy end, niente canti né danze, realizzato in piena dittatura musical, in originale Al Azima, è stato girato negli studi Misr, ma soprattutto fuori dagli studi, nelle viuzze popolari grondanti di operai, artigiani e commercianti. Kamal Salim, nato nel 1913 da una ricca famiglia, si consacra alla settima arte prima come attore, poi come sceneggiatore e regista. Dopo aver studiato a Parigi torna al Cairo e il suo esordio è del 1938, Dietro il sipario cui seguiranno La volontà (1939), affrontando il tema della disoccupazione, e la commedia Venerdì sera (1941), un film contro l’oscurantismo che avrà uno strepitoso successo. Dopo un adattamento dei Miserabili da Hugo del 1944 e un Romeo e Giulietta morirà prematuramente a 32 anni, durante le riprese di Storia d’amore (da Emily Bronte), lasciando il compito di proseguire la sua lezione (tecnica sottile, grande forza drammatica e profonda passione sociale) al suo aiuto regista, Salah Abu Seif.
Morti tra i vivi, opera di un pessimismo incurabile, di fattura classica nel senso nobile del termine, è un adattamento (il primo nella storia) di un romanzo omonimo di Naguib Mahfouz, diretto “dal più egiziano di tutti i registi arabi”, e dal più manicheo di tutti. Per Salah Abu Seif , classe 1915, il mondo si divide in ricchi e poveri. E lui sta sempre coi poveri, benedetti da dio. Anche qui siamo in piena tensione realista: quando un funzionario pubblico muore lasciando la moglie in miseria sarà duro sopravvivere per la famiglia. Il figlio si butterà nel traffico di droga e la figlia (Sana’ Gamil) nella prostituzione, il tutto pur di far diventare cadetto militare l’altro figlio, Omar Sharif, all’esordio. Appassionato cinefilo, Seif è stato il più “nasseriano” dei cineasti egiziani dell’epoca, il più diretto e popolare nel linguaggio, un po’ rigido ideologicamente, populista e giustizialista come voleva il “socialismo arabo”. È morto il 23 giugno 1996.
Quarto: Les dupes (Gli ingannati) di Tawfiq Saleh (Siria-Egitto, 1972), 16 voti
Adattamento dal romanzo del palestinese Ghassan Kanafany (Uomini sotto il sole), assassinato in Libano nel 1972, questo suspense-film, che cita esplicitamente Il salario della paura, diretto dal regista egiziano allora in volontario esilio politico, tratta in stile allegorico ‘odissea tragica dell’emigrazione. Tre palestinesi della diaspora, di generazioni differenti, cacciati con le armi dalle loro case dagli israeliani nel 1948 (la prima parte del film è sulla Nakhba), sfruttati e umiliati anche dai cugini arabi, non hanno altra soluzione per sopravvivere che affrontare il deserto e entrare clandestinamente nel ricco Kuwait. L’unico modo di sfuggire ai soldati è nascondersi nella cisterna vuota di un camion e beffare le guardie di frontiera, ma hanno a disposizione solo sette minuti per non morire soffocati e le lungaggini burocratiche alla dogana sono interminabili…
Tawfiq Saleh, nato ad Alessandria d’Egitto (1926-2013), è il cineasta più politicizzato della generazione realista “nasseriana”, l’unico che si è sempre rifiutato di girare un film commerciale. Padre medico, studia al Victoria College di Alessandria prima di deciarsi alla letteratura inglese e al teatro al Cairo, dove si laurea nel 1954. Vive un anno a Parigi, fisso alla Cinematheque. Assistente di Chahine, realizza film che avranno tutti noie con la censura e con il potere perché incitano gli sfruttati a ribellarsi e a lottare, fino all’ autoesilio in Siria e poi in Iraq.
Terzo: Gare Centrale (Stazione centrale) di Yussef Chahine (Egitto, 1958), 18 voti
Grazie alla compassione di un vecchio commerciante, Kenaoui (interpretato dallo stesso regista Chahine), trova alla Stazione Centrale del Cairo un modesto impiego come venditore di giornali. Semplice di spirito e perennemente ubriaco, ossessionato dal sesso e con repentini bagliori schizofrenici, si innamora della bella Hanouma (Hind Rostom), che vende Coca Cola e succhi di frutti nella stessa stazione, ma è innamorata del sindacalista dei facchini (Farid Chawqui), anche se fa un po’ la civetta con lui e lo prende in giro. Il finale sarà tragico, un delitto obliquo, la follia…
Grande successo al festival di Berlino per questo film che deve molto al neorealismo e a Elia Kazan. Yussef Chahine (Alessandria d’Egitto, 1926-2008) vince una borsa al Pasadina Playhouse dove approfondisce lo studio di Shakespeare. Tornato nel 1948 in Egitto firma i suoi primi film a soggetto nel 1950, realizzando opere intelligenti e popolari e collezionando presto premi internazionali e prestigiose partecipazioni a Cannes e Venezia. I suoi film più originali e appassionati, rivoluzionari e fantasiosi, autobiografici e poetico-politici sono Saladino, La terra, Alessandria, La memoria, L’emigrato, Addio Bonaparte, Alessandria ancora e sempre, Il sesto giorno.
Secondo: La terra di Yussef Chahine (Egitto, 1968), 27 voti
Adattato dal romanzo omonimo dello scrittore marxista egiziano Abderrahman al-Charkawy, scritto nel 1954 e grande successo di vendite, non privo di nokat (l’ironia egiziana), ornato da una partitura musicale sontuosa e girato a colori in “stile Donskoy”, La terra rimane nel filone neorealista-neosocialista. Ambientato negli anni trenta, è il racconto della vita di un villaggio, dove lo scontro tra grandi e piccoli proprietari di terre diventa l’epopea di una rivolta contadina contro lo sfruttamento capitalistico e l’arroganza dei padroni. Insomma un western-eastern di estrema sinistra. E finalmente gli eroi sono i dannati della terra.
Primo: La mummia di Chadi Abdel Salam (Egitto, 1970), 35 voti
Roberto Rossellini ha dovuto quasi costringere le autorità politiche a inventare l’Organismo del cinema egiziano, che finanziò quel solo film nazionale, per indurre il braccio pubblico a valorizzare un magnifico talento cinematografico come Abdel Salam, architetto e scenografo (collaboratore di pressoché tutti i registi attratti dalle piramidi, come Mankiewicz e Kawalerowicz). Salam però non riuscirà più a trovare i soldi per un altro lungometraggio, nonostante i suoi tanti progetti legati alla riappropriazione non esotico-spettacolare delle radici faraoniche e pre-islamiche dell’Egitto.
Il soggetto di questo capolavoro è ispirato alla scoperta delle mummie nella Valle dei Re, avvenuta nel 1881, e al libro dell’archeologo Maspero sullo scontro a Deir el Bahari tra una tribù di tombaroli e le autorità del Museo del Cairo a proposito della tomba di un faraone appartenente alla XX dinastia. Chadi Abdel Salam (1930-1986) è il cavaliere solitario del cinema egiziano, perché non apparteneva ad alcuna conventicola cairota di filmaker. Architetto (“costruire delle case mi ha insegnato a costruire i film”) scenografo, decoratore, costumista collabora a decine di produzioni in costume prima di conoscere Rossellini, che aiuterà nelle sequenze egiziane di Lotta per la sopravvivenza.
Il regista romano lo convincerà ad esordire nella regia con un’opera di grande suggestione plastica e di inedita esattezza filologica, una metafora dello scontro tra paese arcaico e anacronistico e modernità scientifica. Dopo La mummia, realizzerà i mediometraggi Il contadino eloquente (1970), Orizzonti (1972), Le armi del sole (1974); Il trono dorato di Tutankhamen (1982); Le piramidi e il periodo precedente (1984) e Dopo Ramses II (1986).
Questi i magnifici dieci, ma dal 1984 il panorama è cambiato. Altri cineasti e cineaste si sono affermati. Senza conoscere Nouri Bouzid, Nacer Khemir, Ferid Boughedir, Mahmoud Ben Mahmoud, solo per nominare i tunisini, o gli egiziani Nasrallah e el Batout, sarebbe stato difficile capire in anticipo i sommovimenti radicali ancora in corso che hanno portato alle primavere arabe. Più irreversibili di quanto non si pensi. E che spiegano la virulenza della controriforma integralista e letteralista in atto.
Un bellissimo film che sarà in lizza nella serata degli Oscar è Timbuctu, di Abderramane Sissako. Timbuctubatte bandiera mauritana, perché il regista è nato lì anche se vive a Parigi e ha studiato al Vgik di Mosca. Tratta della guerra con il fondamentalismo islamista in Mali e dei mille sistemi escogitati dal basso per difendersi da questo gigantesco attacco ai principi di libertà individuale e di egualitarismo sociale e economico. È quindi un film di stretta attualità. Anche per le notizie fosche che riceviamo dalla Nigeria, altra zona del mondo permeata dalla cultura araba, pesantemente deformata e caricaturalizzata dagli squadristi barbuti, altro che Wolinski, dove l’esercito è impotente a fermare le formazioni jihadiste.
E di stretta attualità è anche il blockbuster Exodus di Ridley Scott, appena uscito nelle sale italiane, dove si evoca indirettamente, come nemico numero uno, la Brigata dei falchi di Cham (la Grande Siria) , una delle componenti armate dell’Isis che stanno strappando terreno a Assad e al movimento di liberazione democratico della Siria. Il film di Scott è la versione aggiornata dei Dieci comandamenti di Cecil B. De Mille, del suo remake anni ’50, e la riverniciatura moderna non è affidata soltanto alla scena del mare che, invece di aprirsi, si ritira, effetto tsunami, per permettere la fuga agli ebrei e poi travolge con una mega onda le truppe del faraone Ramses.
Il Mosé interpretato da Christian Bale, ovviamente ornato dalla barba millennial oggi di moda, a un certo punto dà l’indicazione militare di conquistare lo Cham. “E se gli abitanti del posto non saranno d’accordo?” gli obiettano. Dopo quattro secoli di schiavitù abbiamo il diritto di chiedergli di scansarsi, risponde lui in buona sostanza. Per questa scena, probabilmente, il film è stato vietato non solo negli Emirati Arabi, ma anche dai cosiddetti “stati arabi moderati”, come il Marocco e l’Egitto, che trovano offensiva la direttiva strategica del film. Dunque non è tanto o solo la rappresentazione dei profeti che infastidisce parte della cultura islamica. Yussef Chahine, uno dei padri del cinema moderno, fu imprigionato ai tempi di L’emigrante (1994) per aver osato rappresentare un profeta. Ma vinse agevolmente il processo e fu prosciolto.
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