Sono già una trentina i docenti insultati, minacciati, aggrediti dall’inizio del 2018. Se n’è accorto persino Salvini. Da decenni, del resto, gli insegnanti sono regolarmente oggetto di campagne denigratorie al limite della diffamazione. Ricordiamo le parole di Renato Brunetta sui docenti “fannulloni” che, per il lavoro che fanno, “guadagnano anche troppo”? Una china, quella dei professori e maestri italiani, che li ha resi i docenti peggio pagati del mondo occidentale, e i laureati meno pagati e meno stimati d’Italia.
La legge 107/ 2015 (“Buona scuola”) perfeziona questo processo, iniziato nel 1993 con l’ingresso forzato degli insegnanti delle Scuole (ma non delle Università) nel Pubblico Impiego. Avvenne col Decreto Legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e comportò, tra l’altro, il divieto di aumentare la loro paga in misura maggiore di una percentuale minima dell’inflazione “programmata” (la quale è una percentuale dell’inflazione dichiarata dall’ISTAT, sua volta minore di quella realmente riscontrata da ogni cittadino quando va a fare spesa). Causò anche la perdita del ruolo docente (tutela della libertà d’insegnamento): infatti, da allora, gli insegnanti delle scuole non sono più “di ruolo”, ma “a tempo determinato”; il che significa che possono andare in soprannumero, fino ad esser licenziati se rifiutano il trasferimento d’ufficio. Il Preside, ormai lungi dall’essere quel primus inter pares che è ancora all’Università, divenne “datore di lavoro”. E, con l’“autonomia scolastica” (articolo 21 della Legge 59 del 15 marzo 1997 e D.P.R. n. 275/1999), il “datore di lavoro” divenne quel “Dirigente scolastico” cui il codice disciplinare Brunetta prima, la “Buona Scuola” poi, e infine il recente contratto nazionale (il cui art. 28 consente ai Dirigenti persino la possibilità di destinare, del tutto o in parte, l’orario di qualsiasi docente alle attività di potenziamento), conferiscono amplissimi poteri decisionali, punitivi, coercitivi.
Tutto ciò ha costruito nella mente collettiva del Paese l’immagine di maestri e professori (cui prima era riconosciuta dignità e capacità di autoregolamentazione) come massa amorfa, impreparata ed incapace, e della Scuola come luogo degno solo di chi “non sa far altro che insegnare”. Infatti, in un mondo che misura tutto sulla base del denaro guadagnato e del potere personale, chi sceglie di insegnare può essere soltanto un fallito: questo pensa ormai l’italiota medio. Ed il docente medio ha interiorizzato questo “peccato originale” dovuto alla sua “diversità genetica”, che lo fa “perdente” in un’ottica calvinista secondo la quale se vali guadagni e se guadagni vali.
Stupiscono, dunque, le parole del Professor Giuseppe Conte (giurista, docente universitario di chiara fama, attuale Presidente del Consiglio dei Ministri), il quale ha detto di non voler “stravolgere” la legge sulla “buona Scuola”, ma solo di volerla correggere: «In materia di buona scuola abbiamo ragionato con tanti stakeholders, ci sono criticità su cui vogliamo intervenire». In piena continuità coi governi precedenti, quindi, stando a questa dichiarazione, dobbiamo aspettarci che gli insegnanti continuino a non aver voce in capitolo? Contano di più gli stakeholders (Confindustria, Vaticano, banche, BCE, Commissione Europea, FMI, Trilateral Commission, Gruppo Bilderberg e via risplendendo)?
Si capisce: la politica ha le sue logiche, e nel Governo c’è la Lega, da sempre fan del modello scolastico aziendalista; anzi, alla Lega è stato ceduto proprio il MIUR. Basta questo, tuttavia, per dire ai docenti che, sperando in un cambiamento sostanziale, si erano illusi?
Gli insegnanti non ne possono più di prove Invalsi, di didattica per competenze, di alternanza scuola lavoro, di classi pollaio surriscaldate, di penuria di insegnanti di sostegno, di promozioni obbligatorie. I docenti, in massima parte, indipendentemente dal credo politico e sindacale, sono stufi di tutto questo; anche quando non lo dicono apertamente, anche quando non scioperano, anche quando ubbidiscono ai diktat senza fiatare. Il malessere c’è, sempre più tangibile. Gli insegnanti vogliono rimettere al centro se stessi ed il proprio desiderio di trasmettere amore per la conoscenza, base di qualsiasi competenza. Vogliono nuove professionalità per il sostegno, vogliono poter valorizzare gli studenti migliori, poter non essere costretti emigrare per insegnare, aver tempo per studiare e lavorare con calma, curando la relazione con gli allievi e permettendo loro un vero successo formativo (che non vuol dire promozione assicurata, ma scoperta delle proprie capacità).
Se anche questo Governo, in cui molti docenti hanno sperato, perderà l’occasione per renderli più sereni e per riconquistarne il cuore, gli insegnanti dovranno prendere atto di non potersi fidare di nessuna forza politica, ma di poter far conto soltanto su se stessi e sulla propria capacità di organizzare da sé la propria resistenza: come fecero gli insegnanti dei comitati di base trent’anni fa.
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