Ha senso contrapporre le letterature al digitale? Ovviamente no: il digitale è uno strumento utilissimo, anche per studiare le letterature. Purché non diventi un fine, e il fine non si tramuti in divinità. A molti docenti universitari, certo in buona fede e desiderosi di svecchiare la didattica mediante il digitale, talora sfugge la mole di interessi economici e politici che funge da propulsore per le veloci “riforme” che rischiano di stravolgere l’intero sistema educativo mondiale, a cominciare da quello italiano: il che potrebbe non essere un male, se fossimo certi dei risultati positivi promessi da tecnologie e dottrine didattiche alla moda. Il problema sorge quando le mode didattico-pedagogiche mettono in discussione anche l’impianto pedagogico nel suo complesso e le discipline che ne hanno sempre costituito l’ossatura.
In un precedente articolo abbiamo sottolineato la basilare importanza della lingua e della letteratura latina per l’educazione del cittadino moderno. Ebbene, non si può misconoscere l’influenza della lingua della Grecia antica (e della sua sterminata letteratura) sulla civiltà romana e, di conseguenza, su quella italiana e mondiale moderna.
Secondo l’Istituto della Enciclopedia Italiana «non ha pressoché senso dire che l’italiano deriva dal latino: bisognerebbe piuttosto dire che l’italiano è la lingua latina così come si è trasformata nel corso dei secoli all’interno di una determinata area». Perciò il greco — sul cui lessico e sulla cui letteratura si formò la mentalità romana e, per essa, quella medievale e moderna — è il vero humus in cui la lingua italiana e la cultura mondiale moderna affondano le proprie radici.
Si pensi a quanta parte del vocabolario italiano deriva, direttamente o indirettamente, dal greco antico. Uno studio di Luca Lorenzetti (per l’Enciclopedia dell’italiano Treccani) conta la presenza nell’italiano moderno di ben 8.355 lessemi greci. I lessemi inglesi prestati all’italiano sono invece 6.292; quelli francesi arrivano 4.982; 1.055 gli spagnoli; 648 i tedeschi; 633 gli arabi; 252 i russi. I prestiti da altre lingue sono nell’italiano 23.531 (su 260.000 lemmi analizzati nel GRADIT di Tullio De Mauro).
Di conseguenza il greco rappresenta più del 35% del totale dei lessemi prestati all’italiano da altre lingue; persino l’inglese, che negli ultimi 50 anni ha colonizzato le menti degli italiani, non arriva tuttavia a superare il 27%; il francese, per secoli lingua delle persone colte (seconda in questo solo al latino), supera appena il 21%; lo spagnolo (parlato oggi da più di mezzo miliardo di persone) giunge appena sopra il 4%, sebbene il predominio politico spagnolo sulla Penisola sia durato quasi due secoli.
E, a proposito di predominio straniero, quello longobardo fu altrettanto lungo e severo: 200 anni almeno, dopo i quali tutti gli italiani in Europa erano chiamati longobardi (o lombardi); e di origine longobarda furono molte famiglie nobili dell’aristocrazia italiana, per secoli. Eppure i lasciti longobardi alla lingua italiana sono solo 114, ossia lo 0,4% del totale.
Ciò che fa del greco la nostra vera lingua madre, non è quindi mai stata una superiorità militare o politica nei nostri confronti: ché anzi fu la Grecia ad esser conquistata da Roma (come gran parte dell’Europa, del vicino Oriente e del Nordafrica). Il fatto grande fu che «Graecia capta ferum victorem cepit» (Orazio, Epistole, II, 1, 156): fu la Grecia conquistata a conquistare il cuore e la mente del fiero, duro e rozzo vincitore, facendolo innamorare di sé. E questo amore ha generato noi, uomini e donne del terzo millennio, volenti o nolenti.
È quella greca la nostra cultura madre. Da essa nascono la nostra filosofia, il nostro pensiero politico (“politica” è parola greca), la nostra concezione della letteratura; persino la nostra conoscenza del legame tra lingua e pensiero: quella «unità di pensiero e linguaggio che i Greci chiamarono logos», secondo le parole di Anna Angelucci. La quale, nel suo “Le due educazioni”, cita il biologo e filosofo Telmo Pievani: «Le facoltà cognitive impregnano il linguaggio, e non soltanto viceversa, e l’acquisizione del linguaggio retroagisce sulle facoltà cognitive stesse. In questo effetto di ritorno del linguaggio, una volta acquisito, sull’intelligenza umana, si innescherebbe la comparsa di facoltà inedite come l’autoriflessione. Il linguaggio avrebbe quindi riorganizzato e ristrutturato a sua volta l’intelligenza umana. Un doppio movimento di ‘coevoluzione’ che anche da un punto di vista paleoantropologico si adatta abbastanza bene ai dati empirici che abbiamo oggi a disposizione sull’evoluzione della modernità anatomica e della modernità mentale della specie Homo sapiens”.»
Insomma, per far crescere le menti degli studenti italiani il problema non sono i mezzi, ma proprio i contenuti. Si diventa “competenti” nell’uso della propria intelligenza e del proprio pensiero critico attraverso lo studio della letteratura. Digitale o no, la lettura e lo studio critico della letteratura (a cominciare da quella greca) è la base di ogni crescita delle facoltà intellettive: conquistate le quali, l’individuo è davvero “adulto”, e può dedicarsi a qualsiasi ramo dello scibile, a qualsiasi progresso scientifico e tecnologico, a qualsiasi conquista etica e civile.
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