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Dilaga la dismorfofobia fra gli studenti. Il rimedio: psicoterapia, riflessione, conoscenze culturali approfondite

«Ho 20 anni e mi vedo bruttissima. Mi capita da quando ne avevo 13. Da piccola tutti dicevano che ero bella, ma mi sono rovinata crescendo. Non riesco più far nulla: mi guardo allo specchio e mi sento triste; mi disprezzo, mi faccio schifo, mi odio». Tantissimi adolescenti soffrono del disturbo emotivo definito dagli studiosi dismorfofobia: l’angoscia eccessiva per una piccola anomalia del proprio aspetto fisico. Anomalia a volte reale, ma impercettibile, e comunque non tale da giustificare l’inquietudine da essa causata; talora il difetto è puramente immaginario.

Un disturbo da prendere sul serio

La dismorfofobia (nome derivato dal greco, col significato di “paura della propria deformità”) è anche chiamata disturbo da dismorfismo corporeo. Ha molto in comune con altri disturbi ossessivo-compulsivi (spesso favoriti dall’uso del cellulare), ma non va confusa con il disturbo dell’immagine corporea, che caratterizza anoressia, bulimia e vigoressia, e che porta ad una percezione del tutto alterata della propria immagine.

L’apprensione del soggetto dismorfofobico può concentrarsi sulle misure o sulla forma (o su altre caratteristiche) di palpebre, occhi, naso, bocca, orecchie, sopracciglia, mascella, denti, labbra, cranio, guance; fino a riguardare parti del corpo come glutei, seno, genitali, mani, braccia, ventre, fianchi, gambe, piedi, spalle, schiena, muscoli; o sulle misure corporee. Nei casi più gravi il soggetto si fissa sulla “bruttezza” di quasi tutte queste parti, rischiando il delirio autodistruttivo.

I risultati scolastici ne risentono negativamente

Inutile dire che un tale disturbo influenza negativamente la vita scolastica di chi ne soffre. Il soggetto passa dalle tre alle otto ore al giorno ad osservarsi e a tentare di modificare i propri “difetti”, veri o presunti che siano, provocandosi spesso anche danni fisici nel tentativo di deformarli. Ne risente negativamente tutta la sua vita sociale, quindi anche i risultati scolastici possono venirne compromessi.

Chi è convinto della propria bruttezza può vergognarsi di uscire, aver l’impressione che tutti lo guardino con disgusto o scherno, fissarsi sul controllo degli sguardi e delle espressioni altrui come conferma delle proprie ansie.

Affine alla dismorfofobia, la vigoressia (detta anche bigoressia, o dismorfia muscolare, o anoressia riversa) è l’eccessiva ansia per la propria massa muscolare, che il paziente vede sempre esigua, anche quando essa — al contrario — è erculea a causa dei continui allenamenti quotidiani (e all’assunzione di anabolizzanti) cui il soggetto si sottopone (danneggiando la propria salute).

Cambiare il modo in cui il soggetto pensa

La dismorfofobia si cura. Il miglior rimedio è la psicoterapia, specialmente quella cognitivo-comportamentale: il paziente viene orientato a comprendere che molti dei nostri problemi sono dovuti non a fatti reali, ma ai pensieri con cui noi valutiamo la realtà. È una tecnica psicoterapeutica atta a contenere e superare molti disturbi ossessivo-compulsivi, oggi diffusissimi — non solo tra adolescenti e giovanissimi — ed affini alla dismorfofobia nell’eziologia e nei meccanismi. I farmaci servono a poco: tranne nei casi in cui il paziente sia anche affetto da depressione

Non solo gli adolescenti: la dismorfofobia tra gli adulti

Ma quanti sono i dismorfofobici? Circa il 2% della popolazione (uno su 50). In Italia,  ciò significa più di un milione di persone, in gran parte molto giovani.

Il problema spesso si supera col passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Spesso, ma non sempre. Lo dimostra il crescere degli interventi di chirurgia estetica, con i quali molti adulti si illudono di tacitare i propri tormenti interiori. Secondo alcuni studi, nel 2021 in Italia sono aumentati — fino a raggiungere quota 283.668 — gli interventi di chirurgia estetica (per lo più mastoplastica additiva, aumento delle labbra e blefaroplastica). Le procedure non invasive (infiltrazioni di acido ialuronico, botulino, peeling chimico) sono state ben 385.116.

Due generazioni italiane perdute nel culto del proprio look

A volte la persona dismorfofobica si convince per tutta la vita di essere ripugnante, e al massimo si accetta così com’è: o meglio, come crede di essere. Ciò significa però che avrà paura di avvicinarsi a persone dell’altro sesso che la attraggono, perché certa di esserne respinta o derisa.

Tutto questo accade, non a caso, in una società come la nostra, fissa da 40 anni nella venerazione del look, nella creazione di modelli di bellezza maschile o femminile col fine unico di vendere prodotti (di ogni tipo, non solo cosmetici), offerti “h24” dai media ai nostri occhi. E forse non è un caso che il nostro Paese sia quello “più tatuato” del pianeta Terra: il 48% degli italiani ha almeno un tatuaggio, e moltissimi si bucherellano col piercing, fino a congiungere l’anello al naso e l’orecchio tramite vistose catenelle.

Che ci sia un qualche legame tra la fissazione di un’intera società sull’aspetto personale, il narcisismo dilagante (insieme all’ignoranza) e la dismorfofobia?

Dall’avere all’essere: riflessione filosofica e preparazione culturale

Già nel 1947 il filosofo e psicoanalista Erich Fromm preconizzava una società ossessionata dall’avere. Non solo oggetti e denaro possono esser posseduti: si può “avere” un aspetto — bello o “brutto” che sia — e dargli la stessa importanza che il miliardario dà ai propri miliardi, anziché essere e considerarsi una persona umana unica nell’universo e nell’eternità, col proprio aspetto, il proprio sentire, il proprio mondo interiore, la propria capacità di soffrire, gioire, emozionarsi, amare, donare.

La terapia della dismorfofobia consiste nell’aiutare la persona a capire che l’aspetto esteriore è solo una delle infinite caratteristiche dell’umano; e nemmeno la principale. Ancora una volta, il risveglio può esser favorito dalla cultura: letteratura, filosofia, storia, geografia, scienze; da tutto ciò, insomma, che si impara a scuola. Con buona pace di chi lo considera “inutile” per conseguire competenze di vita sociale.

Alvaro Belardinelli

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