Gli ultimi dati, quelli elaborati da Openpolis (per saperne di più https://www.openpolis.it/la-crisi-della-natalita-nei-comuni-italiani/ ) e secondo le ultime proiezioni Istat, raccontano che in Italia i quasi 60 milioni di abitanti potrebbero scendere a poco più di 45 nel 2080. A fronte di una media dell’Unione di 9,1 nascite ogni mille abitanti nel biennio 2020-21, in Italia la quota si è fermata a 6,8, la cifra più bassa tra tutti gli stati membri, un dato confermato nella rilevazione 2022.
Il tasso di natalità cioè il numero di nuovi nati in relazione ai residenti, è passato dai quasi 10 alla fine degli anni 2000, ai circa 8 del 2015 ai meno di 7 attuali. Sono 4 le aree del paese che per ora fanno eccezione a questa tendenza: la provincia di Bolzano, dove 2 comuni su 3 superano la soglia europea, le aree metropolitane di Napoli, Catania e in provincia di Caserta, dove meno del 70% dei comuni si caratterizzano per un tasso di natalità inferiore alla media Ue.
Nel 2022, per la prima volta in Italia, il numero di nati è sceso sotto quota 400 mila, sono infatti 393 mila, ovvero il 2% in meno del 2021, in cui si era già registrato il record negativo dall’unità d’Italia e quasi un terzo in meno rispetto al 2008.
Nel 2022 il tasso di natalità nazionale è stato molto lontano da paesi come Irlanda (11,2), Cipro (11,1) e Francia (10,6) dove nello stesso anno ha superato quota 10; Spagna (6,9) e Grecia (7,3) risultano più vicini all’Italia, ma il dato nazionale è comunque inferiore anche a queste due nazioni.
Se ne parla da diverso tempo e già questa primavera sono stati diffusi dati preoccupanti che mettono in relazione la bassa natalità e l’effetto sulla scuola italiana, dati che sono rimbalzati anche su quotidiani internazionali, mettendo in luce come la bassa natalità e la conseguente diminuzione di bambine e bambine futuri allievi delle scuole sia da attribuire soprattutto alla mancanza di sostegno sociale, ai cambiamenti del modello di genitorialità e all’aumentata attenzione all’investimento necessario per crescere un figlio, insieme ai timori di esporre la propria prole ad un futuro incerto.
In questo contesto, ad aggiungersi ai 2.600 edifici chiusi nell’ultimo decennio ci saranno – si stima nei prossimi cinque anni – altre 1.200 scuole, soprattutto le scuole dell’infanzia e le primarie.
In Italia, la scuola dell’infanzia non è obbligatoria e spesso si accede per liste, inoltre in molte città italiane la scuola primaria non garantisce il tempo pieno, obbligando molti nuclei familiari a fare scelte drastiche, come spesso la rinuncia al lavoro delle madri o a investire buona parte dello stipendio in babysitter, e la situazione e meno che mai rosea per i nidi. A farne le spese è soprattutto la scuola paritaria, che ha perso 3 studenti su 10 proprio all’infanzia.
Secondo la legge di Bilancio, che prevede sia di 900 il numero minimo di per mantenere in vita l’autonomia scolastica di un singolo istituto, appare evidente come in base al forte calo di natalità questo numero sia irraggiungibile per un grande numero di istituti. Le conseguenze saranno più pesanti per quelle regioni, che hanno un’incidenza più bassa di popolazione nella fascia tra i 3 e i 18 anni e tra queste l’Abruzzo, la Basilicata, la Campania, la Calabria, le Marche, il Molise, la Puglia, la Sardegna, la Sicilia, la Toscana e l’Umbria.
Proprio in queste settimane, per esempio si sono mobilitate le scuole irpine, la Campania è infatti la Regione a più alta riduzione di istituti scolastici, in particolare quelle dell’Alta Irpinia, con il sostegno di 25 sindaci che chiedono di modificare i parametri e di portare almeno a 400 il numero minimo di iscritti per garantire la sopravvivenza di un istituto.
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