Durante Fiera Didacta a Bari si è svolto un interessante evento dal titolo: “Leadership distribuita e merito, nuove frontiere per la professione docente” con le relazioni della prof.ssa Loredana Perla (pedagogista e Direttrice del Coordinamento della commissione MiM di revisione delle Indicazioni e delle Linee Guida per il primo e secondo ciclo di istruzione) e il dirigente scolastico prof. Carlo Eufemi (membro componente del CSPI) ed oraganizzata dall’USR Basilicata. Nell’occasione di questo evento abbiamo sentito, e intervistato, il dirigente tecnico prof. Francesco Greco che ha relazionato sul tema. A Greco abbiamo fatto domande importanti sull’attuale modello di governance.
Quali sono gli elementi storici e normativi che hanno contribuito alla formazione dell’attuale modello di governance scolastica in Italia e quali gli effetti sulla professione docente?
Il modello di governance scolastica attuale in Italia è il risultato di due momenti storici e normativi fondamentali.
Il primo momento è legato ai decreti delegati degli anni ’70, emanati in attuazione della legge delega n. 477/1973, con l’obiettivo di superare il vecchio modello centralistico e gerarchico della scuola “gentiliana” e introdurre una gestione più democratica, che coinvolgesse anche genitori e studenti nei processi decisionali. I decreti legislativi del 1974 (D.lgs. 416-417/1974) disciplinavano l’istituzione degli organi collegiali e ridefinivano lo stato giuridico del personale scolastico.
In particolare, il D.lgs. 416/1974 creava gli organi collegiali, dove docenti, studenti e genitori potevano partecipare attivamente alla governance scolastica, introducendo un modello di gestione democratico e orizzontale. La scuola si apriva alla società, diventando un “fatto sociale collettivo”. A livello nazionale, provinciale, di distretto e di scuola, questi organi costituivano il fulcro della nuova governance, con rappresentanze democraticamente elette.
Il secondo momento cruciale è rappresentato dalla “riforma Bassanini” con la legge delega n. 59/1997, che trasferì funzioni e competenze dallo Stato agli enti locali e riconobbe l’autonomia funzionale alle scuole. L’art. 21 della legge attribuiva alle scuole personalità giuridica e autonomia funzionale, permettendo loro di gestire risorse e processi in modo più autonomo. Questo cambiamento segnò anche la trasformazione dei capi d’istituto in “dirigenti scolastici”, una qualifica che implicava maggiori responsabilità manageriali rispetto al precedente ruolo di “preside”, che era più vicino a un “primus inter pares”. La figura del dirigente scolastico acquisì una posizione sovraordinata, più simile ai modelli burocratici della pubblica amministrazione.
In entrambi i casi, questi cambiamenti hanno avuto un impatto significativo sulla professione docente. La riforma del 1974 riconobbe la specificità del lavoro dei docenti, separandoli dallo status di impiegati civili dello Stato e riconoscendo il loro ruolo centrale nella trasmissione e nell’elaborazione del sapere. Questo fu un passo cruciale verso la professionalizzazione dell’insegnamento, con un focus sull’autonomia e indipendenza dei docenti, in coerenza con la libertà di insegnamento garantita dalla Costituzione.
La riforma del 1997, invece, ebbe un impatto diverso, poiché la scuola fu assimilata sempre di più alla pubblica amministrazione e il dirigente scolastico assunse un ruolo più burocratico. In questo passaggio, si perse in parte lo sforzo di valorizzare la diversità della scuola rispetto ad altre istituzioni pubbliche.
Quali erano le motivazioni alla base di queste riforme e quali obiettivi si intendevano raggiungere?
Le riforme degli anni Novanta, compresa quella della scuola, si inseriscono in un contesto più ampio di riforma della pubblica amministrazione, influenzato dalle politiche neoliberiste e dal New Public Management (NPM). L’Italia, come molti altri Paesi occidentali, doveva affrontare un debito pubblico elevato e una stagnazione economica, che richiedevano una revisione del funzionamento del settore pubblico per conformarsi ai criteri di convergenza stabiliti dal Trattato di Maastricht, necessari per l’adozione dell’euro.
Il New Public Management introdusse pratiche manageriali del settore privato nella pubblica amministrazione, con l’obiettivo di ridurre i costi, migliorare l’efficienza e liberalizzare il mercato dei servizi pubblici. In questo contesto, la scuola non fu esente da questa logica riformatrice. Tuttavia, ciò sollevò preoccupazioni: la scuola non è un’azienda, e il modello organizzativo gerarchico mal si adattava a un ambiente educativo che richiede più flessibilità e partecipazione collettiva.
Quali sono i principali limiti di questo modello di governance e come potrebbe essere modificato?
Un limite evidente del modello di governance attuale è l’adozione di un’organizzazione verticale e burocratica, più adatta alla pubblica amministrazione che a un contesto educativo. Se negli anni ’70 si era cercato di rendere la scuola un’istituzione partecipativa, il modello manageriale introdotto dalla riforma del 1997 ha riportato la scuola verso una gestione più gerarchica, con il dirigente scolastico in una posizione di controllo piuttosto che di coordinamento e di leadership educativa.
Paradossalmente, oggi molte aziende stanno abbandonando modelli organizzativi verticali per adottare strutture più flessibili e di rete, con modelli organizzativi orizzontali, basati sulla collaborazione e sulla leadership diffusa. Anche nelle scuole, un approccio basato sulla leadership diffusa potrebbe migliorare la qualità dell’ambiente scolastico e la qualità del suo sistema di governo.
Quando si parla di governance della scuola italiana non si può fare a meno di parlare di autonomia scolastica e della figura del dirigente scolastico, questa tematica apre sempre un interessante dibattito tra chi ritiene che la scuola vrebbe bisogno di una maggiora autonomia e chi invece vorrebbe rivoluzionare il sistema introducendo una leadership democratica e rappresentativa.
A tal proposito c’è chi pensa che per implementare un modello di leadership diffusa nelle scuole è necessario un cambiamento culturale e organizzativo profondo. Un modello di governance scolastica realmente partecipativo dovrebbe:
Questi cambiamenti mirano a trasformare le scuole in vere comunità di apprendimento e professionali, capaci di garantire una gestione più partecipativa, con evidenti benefici per il clima educativo e la qualità dell’istruzione. In questo modo, sarebbe possibile migliorare l’efficacia del sistema scolastico italiano e garantire un futuro più solido alle nuove generazioni.
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