Una direttiva a duplice firma (ministra della PA Giulia Bongiorno e sottosegretario con delega allle Pari Opportunità Vincenzo Spadafora) dovrebbe indurre gli uffici pubblici a cambiare il lessico utilizzato nelle circolari e in ogni altra forma di comunicazione istituzionale.
Il “succo” del provvedimento è molto semplice: nei documenti ufficiali (relazioni, circolari, decreti, regolamenti, ecc.) si dovranno usare termini non discriminatori. Meglio quindi l’uso di sostantivi o nomi collettivi che includano entrambi i generi: persone, per esempio, e non “uomini”.
Nella scuola quindi le circolari andranno indirizzate non “ai docenti” ma “al personale docente”, mentre potrebbe andare bene rivolgersi “ai genitori”.
Scrivendo agli studenti sarà opportuno usare la formula “alle studentesse e agli studenti”, mentre sarà meglio evitare di scrivere “ai collaboratori scolastici” (la formula più adeguata potrebbe essere “al personale ATA con funzioni di collaboratore scolastico”).
Il tutto in attesa che linguisti e Accademici della Crusca risolvano alcuni dubbi: se il presidente del Consiglio di Istituto è una donna, bisognerà scrivere “alla presidente”, “al presidente” o “alla presidentessa”?
E l’aggettivo “scolastico” riferito a “dirigente” dovrà essere declinato al femminile, se ci si rivolge ad una dirigente?
Senza sottovalutare il problema, ci sembra che la direttiva ministeriale lasci un po’ il tempo che trova: ma davvero qualcuno pensa che cambiando il lessico possano cessare comportamenti discriminatori?
Ma il ministro (o la ministra) Giulia Bongiorno non sa che già la legge n. 15 del 1968 prevedeva, ad esempio, la possibilità di sostituire molti documenti con l’autocertificazione e che la stessa pubblica amministrazione ha continuato a pretendere dai cittadini il documento originale “infischiandosi allegramente” (ci si passi l’espressione) di una ben precisa norma di legge?
E che dire della Direttiva del 2002 del ministro Frattini sulla semplificazione del linguaggio amministrativo?
A rileggerla oggi si capisce subito a quanto poco servano direttive del genere.
Per esempio già nel 2002 si suggeriva di “evitare neologismi, parole straniere e latinismi” (ma ormai non c’è norma di legge in cui non si faccia riferimento agli “stakeholders” o alle operazioni di “start up”).
Per non parlare dell’uso smodato delle maiuscole, di cui nella direttiva Frattini si diceva: “Le maiuscole sono mezzi ortografici che hanno lo scopo di segnalare l’inizio di un periodo e i nomi propri. I testi amministrativi affidano spesso alle maiuscole contenuti stilistici di rispetto, di gerarchia, di enfasi. Questi usi sono retaggio di una cultura retorica, appesantiscono lo stile e il tono della comunicazione: essi devono essere eliminati o ridotti quanto più è possibile”.
Basta prendere in mano una qualunque nota ministeriale per rendersi conto che quasi quasi le parole con le maiuscole sono la maggioranza (una maiuscola, ormai, non si nega a nessuno).
Apprezzabile, insomma, l’intenzione del Governo ma nutriamo forti, fortissimi dubbi che una direttiva del genere possa servire a superare discriminazione e comportamenti sessisti.
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