«Quest’anno, cara RSU d’Istituto, mediante il contratto decentrato regolamenteremo il diritto dei lavoratori di questa scuola alla disconnessione». Con parole simili, dal primo settembre, il Dirigente d’ogni italica scuola potrebbe porre il problema accennato dal Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (sottoscritto il 19 aprile scorso) che all’articolo 22, comma 4, lettera c, punto c8 definisce “oggetto di contrattazione integrativa” i “criteri generali per l’utilizzo di strumentazioni tecnologiche di lavoro in orario diverso da quello di servizio, al fine di una maggiore conciliazione tra vita lavorativa e vita familiare (diritto alla disconnessione)”.
Apparentemente, tutto bene: i sindacati maggiori si vantano di aver tutelato un diritto troppo spesso violato da quei Dirigenti Scolastici che usano mail e persino whatsapp per comunicare ai docenti avvisi ed ordini di servizio (addirittura in ore notturne), con la pretesa che esse vengano lette e tenute in considerazione alla stregua delle circolari cartacee che si leggono a scuola e si firmano per presa visione. Ciò rendeva i docenti perennemente reperibili (quasi fossero medici di unità coronariche).
C’è un problema, però: il comportamento di quei dirigenti era semplicemente un abuso; proprio perché nel CCNL non c’era alcun obbligo alla connessione. Aver introdotto nel Contratto il “diritto alla disconnessione” (relegandone i termini alla contrattazione decentrata) significa ammettere ed introdurre un implicito “dovere di connessione” che non è scritto da nessuna parte, non è normato, non è remunerato.
Insomma, un “cavallo di Troia” bello e buono, che fa entrare tra le mura della Scuola un principio, quello della reperibilità fuori dall’orario di lavoro, tipico di altre categorie. Possibile che i Sindacati più potenti non se ne siano accorti? «A pensar male del prossimo si fa peccato ma si indovina», diceva Giulio Andreotti citando papa Pio XI. E noi non vogliamo certo peccare; tuttavia non possiamo esimerci dal domandarci: a quando il braccialetto elettronico per gli insegnanti?
Tutto, infatti, fa pensare ad una sempre più ingravescente impiegatizzazione e proletarizzazione della categoria docente. Lo fa pensare lo stipendio: il quale (grazie al Decreto Legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, che relegò i docenti delle scuole nel Pubblico Impiego, lasciandone fuori gli universitari, e definendo il Preside “datore di lavoro”, quasi fosse il capo di un’azienda privata), non può aumentare più dell’“inflazione programmata” (poetico ossimoro usato dai nostri politici per fissare appunto un tetto agli aumenti salariali dei pubblici impiegati). Lo fa pensare il ruolo assunto dal Preside, nominato “Dirigente Scolastico” dalla cosiddetta “autonomia” (Legge 59 del 15 marzo 1997 e D.P.R. n. 275/1999), per effetto della quale persino il Direttore dei Servizi Generali e Amministrativi (già Segretario) è pagato più del professore più anziano della Scuola Superiore (mentre prima era meno pagato del più giovane maestro di Scuola Primaria). Lo fa pensare la renziana Legge 13 luglio 2015, n. 107 (antifrasticamente definita “Buona Scuola”, per involontario—forse—sense of humour), con il bonus “premiale”, gli strapoteri del Dirigente Scolastico, gli studenti e i genitori nel Comitato di Valutazione dei docenti, e via degustando.
È stato scritto nel Contratto che si possono costringere i lavoratori ad utilizzare “strumentazioni tecnologiche di lavoro in orario diverso da quello di servizio”: ciò non significa forse aver legittimato l’aumento indefinito dell’orario di servizio stesso? È forse sufficiente, difatti, limitarsi a regolarizzare un abuso, per di più demandandone la regolarizzazione alla contrattazione decentrata istituto per istituto (le scuole statali italiane sono 28.000), senza stabilire criteri uguali per tutti, paghe uguali per tutti, orari uguali per tutti, regole certe uguali per tutti, strumenti informatici garantiti gratuitamente a tutti?
Non significa forse, semmai, aumentare il disorientamento e l’incertezza di una categoria già abbondantemente incerta, disorientata, disinformata? Non significa forse favorire gli insegnanti che hanno la fortuna di lavorare in una scuola con rappresentanti sindacali informati e combattivi, a scapito di quelli che hanno la sfortuna di insegnare in scuole con rappresentanti non molto capaci o—peggio—“amici” del Dirigente Scolastico?
Non comporta un’ingiustizia palese verso quei docenti che condividono la malasorte di patire in uno degli istituti scolastici dove il Dirigente non brilla per democraticità e rispetto della dignità degli insegnanti? Ed è poi giusto dare per scontato che i docenti debbano pagarsi da sé tablet, cellulari e computer necessari alla connessione?
Eppure le organizzazioni sindacali che hanno firmato il contratto sono forti di dodici milioni di iscritti (e di miliardi di euro di rendite) come nessun altro sindacato in Europa. Proprio non avrebbero potuto fare di più e di meglio per tutelare i già vessati insegnanti italiani?
Alvaro Belardinelli (esecutivo nazionale Unicobas)
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