Il 10 ottobre è il giorno in cui fu assegnato, nel 2014 (quindi esattamente nove anni fa), il Premio Nobel per la pace a Malala Yousafzai, che due anni prima, all’età di quindici anni, era stata gravemente ferita alla testa da talebani armati che la colpirono sullo scuolabus mentre si accingeva a tornare a casa da scuola. L’attentato era stato ordito perché la giovanissima ragazza pakistana aveva pubblicato su un blog degli scritti per evidenziare i diritti delle donne e il diritto all’istruzione per i bambini, diritti ignorati e negati dal regime dei talebani.
Sono trascorsi dieci anni dall’intervento di Malala Yousafzai presso la sede principale delle Nazioni Unite, dove aveva lanciato un appello per l’istruzione delle bambine e dei bambini di tutto il mondo, dopo che l’anno precedente, il 9 ottobre del 2012, aveva subito l’attentato da parte dei talebani. Ricoverata nell’ospedale militare di Peshawar, città pakistana al confine con l’Afghanistan, Malala è sopravvissuta dopo un delicatissimo intervento chirurgico (poi trasportata presso un ospedale di Birmingham per le successive cure, costretta comunque a trasferirsi in Gran Bretagna per motivi di sicurezza in quanto i talebani avevano minacciato che se fosse sopravvissuta avrebbero cercato di ucciderla).
Per il suo impegno verso l’affermazione dei diritti civili e per il diritto all’istruzione delle donne le fu assegnato (insieme all’attivista indiano Kailash Satyarthi, impegnato anche lui nel campo dell’educazione e dei diritti dei bambini, fondatore della ‘Global March against Child Labour’ e cofondatore della ‘Global Campaign for Education’ nel 1999) il Premio Nobel per la pace nel 2014.
Nel giugno del 2020 Malala si è laureata presso l’Università di Oxford.
Riguardo Iqbal Masih avevamo anticipato (“promesso”) in un articolo pubblicato qualche mese fa commentando i dati allarmanti diffusi in occasione della Giornata Mondiale contro il lavoro minorile, istituita nel 2002 dall’Organizzazione Internazionale del lavoro, che di questo piccolo grande “eroe” avremmo scritto “più diffusamente in altra occasione, perché la sua vita e la sua storia meritano di essere ricordate, magari parlando nel contempo di Malala Yousafzai”.
E quindi, dopo avere ricordato la storia e l’impegno di Malala, torniamo a parlare delle sofferenze di Iqbal e della sua lotta –ancora bambino – contro lo sfruttamento del lavoro minorile.
Iqbal Masih, nato in una famiglia molto povera, già all’età di quattro anni lavorava in una fornace in Pakistan e a cinque anni fu venduto dal padre ad un produttore di tappeti per pagare un debito che il genitore aveva contratto per i festeggiamenti del matrimonio di una delle sorelle. Costretto ancora bambino ad essere un “lavoratore schiavo”, spesso incatenato al telaio e malnutrito, il piccolo pakistano a nove anni uscì di nascosto dalla fabbrica, partecipando insieme ad altri bambini a una manifestazione del Bonded Labour Liberation Front (Fronte di liberazione del lavoro). Ritornato nella fabbrica di tappeti, si rifiutò di continuare a lavorare malgrado le percosse del vile e criminale padrone, iniziando poi a sensibilizzare l’opinione pubblica sui diritti negati dei bambini lavoratori e contribuendo al dibattito sulla schiavitù mondiale e sui diritti internazionali dell’infanzia, con un impegno e una tenacia che, almeno nel suo Paese, portò a risultati concreti, salvando (grazie anche alle pressioni internazionali sul governo locale) migliaia di bambini da sfruttamento e schiavitù, che precedentemente “autorità” corrotte tolleravano. Diventato in tutto il mondo un simbolo contro lo sfruttamento del lavoro minorile per essersi ribellato ai soprusi e alla violenza, Iqbal, il giorno di Pasqua del 1995, fu ucciso, dodicenne, con un colpo di pistola alla schiena.
Un rapporto dell’Unesco, l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’istruzione, la scienza, la cultura e la comunicazione, diffuso circa un anno fa e ripreso anche dal quotidiano Avvenire.it, rileva che sono 244 milioni i bambini e i giovani tra i 6 e i 18 anni che continuano a non essere scolarizzati. Vengono anche sottolineate le “profonde e persistenti disuguaglianze nell’accesso all’istruzione” nel mondo.
Considerando che nel 2000 erano più di 400 milioni i bambini che non andavano a scuola, si può dire che passi avanti ne sono stati fatti, “ma i progressi hanno subito un serio rallentamento negli ultimi anni”, evidenzia l’Unesco (aumento di mancata scolarizzazione dovuto spesso a guerre, crisi economiche, altre problematiche di carattere sociale).
L’istruzione continua a essere un diritto negato ancora molto diffuso, purtroppo.
Un dato positivo, rilevato dal rapporto dell’organizzazione facente parte dell’Onu, è la riduzione del divario tra le ragazze e i ragazzi che non frequentano le aule scolastiche. Secondo i dati raccolti il divario di genere si è “ridotto a zero” in tante nazioni, anche se “permangono disparità regionali” (un esempio eclatante è l’esclusione di massa delle adolescenti dalle scuole di istruzione secondaria in Afghanistan).
Come scritto anche nell’articolo citato riguardante i dati diffusi in occasione della Giornata mondiale contro il lavoro minorile – che si celebra il 12 giugno – Gilbert F. Houngbo, direttore generale dell’Organizzazione internazionale del lavoro-Oil (Ilo in inglese, Oit in francese e spagnolo) sottolinea che “ciò che sta accadendo con il lavoro minorile è l’esatto contrario della giustizia sociale. Per la prima volta in 20 anni, il lavoro minorile è in aumento. 160 milioni di bambini, quasi uno su dieci in tutto il mondo, sono impiegati nel lavoro minorile”.
Dai dati diffusi dall’Organizzazione internazionale del lavoro emerge che nel mondo, sono 160 milioni i bambini e adolescenti tra i 5 e i 17 anni coinvolti nel lavoro minorile. A livello globale, il lavoro minorile riguarda sempre più bambini e adolescenti: secondo le stime, in quasi la metà dei casi (79 milioni di minori) si tratta di un lavoro pericoloso con potenziali danni per la salute e lo sviluppo psicofisico e morale.
Gilbert Houngbo è perentorio: “Dobbiamo intensificare la nostra lotta contro il lavoro minorile, sostenendo una maggiore giustizia sociale” e lancia un’accusa affermando che “il lavoro minorile raramente avviene perché i genitori sono cattivi o non si preoccupano. Piuttosto, nasce da una mancanza di giustizia sociale. L’antidoto al lavoro minorile indotto dalla povertà è un lavoro dignitoso per gli adulti, in modo che possano sostenere le loro famiglie e mandare i figli a scuola, non a lavorare”.
La situazione è grave anche in Italia e il numero di minori in povertà assoluta ha abbondantemente superato la cifra di un milione, mentre un nucleo familiare su quattro è a rischio povertà.
In Italia, peraltro, lo sfruttamento del lavoro minorile è vietato dalla legge n. 977 del 17 ottobre 1967. Con la Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia si è posto un ulteriore elemento complementare e importante, a livello mondiale, per arginare il fenomeno di tale sfruttamento.
Questa grave violazione dei diritti fondamentali dell’infanzia e dell’adolescenza, solo in Italia riguarda, secondo i dati forniti alcuni mesi fa da Save the Children, 336mila minorenni tra i 7 e i 15 anni coinvolti in esperienze di lavoro continuative, saltuarie o occasionali.
Tra questi ultimi, per circa 58mila adolescenti, si tratta di casi di lavori particolarmente dannosi per l’impatto sui loro percorsi educativi e il benessere psicofisico, essendo svolti in maniera continuativa durante il periodo scolastico, oppure in orari notturni o comunque percepiti da loro stessi come pericolosi.
In Europa, in un solo anno, un numero elevatissimo di bambine, bambini e adolescenti in più sono stati spinti sull’orlo della povertà, portando, con riferimento all’anno 2021, il numero totale di minori “che crescono in povertà” a quasi 20 milioni, secondo quanto emerge dal Rapporto diffuso da Save the Children, che prende in esame 14 Paesi europei. Anche l’aumento della povertà, che ovviamente coinvolge pure i più piccoli, è il “frutto avvelenato” delle politiche neoliberiste degli ultimi decenni.
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