di Annamaria Zizza
La scuola italiana vive da decenni (approssimativamente dal decennio successivo al ’68) momenti di instabilità normativa, che la rendono talora troppo permeabile ai mutamenti che la storia imprime alla maggiore agenzia educativa di una nazione. Instabilità che, negli ultimi 20 anni, dall’autonomia in poi per l’esattezza, consente da un lato un diverso e più stimolante approccio alla didattica scolastica, ma dall’altro impedisce o, nel migliore dei casi, rallenta l’efficacia della stessa. Parliamo, nella fattispecie, delle cattedre insufficienti e non ricoperte se non ad anno iniziato, specie al Nord; dei magri fondi destinati alle strutture scolastiche; o ancora della difficoltà a mettere in atto ed efficacemente la politica finalizzata alla scuola inclusiva, che richiede alte specializzazioni, spazi dedicati all’interno di strutture scolastiche spesso deprivate in tal senso, e collaborazione all’interno del consiglio di classe, spesso auspicata durante le virtuose riunioni del Collegio Docenti, ma talora trascurata nella prassi quotidiana, a tutto vantaggio di una didattica individuale e che nega in factis qualsiasi forma di catena solidale e di condivisione di esperienze, anche pregresse, utili per un lavoro più efficace.
Anche l’Esame di Stato, fatto segno di ulteriori -e non sempre adeguatamente motivate- modifiche ad ogni governo che si insedi al potere, è stato elemento di disturbo e di confusione. Come dimenticare i cambiamenti in corso d’opera dello scorso anno, quando, oltre all’abolizione della tanto temuta terza prova (odiata dai ragazzi, ma forse l’unica che riuscisse efficacemente a determinare una valutazione più corretta e meritocratica), il legislatore si è abbattuto col suo machete sul tema storico (la tipologia C) e ha modificato anche la II prova, trasformandola in un ibrido di per sé potenzialmente non negativo (Latino e Greco nei licei classici e matematica e fisica nei licei scientifici), ma inquietante e mal recepito perché non adeguatamente preparato nel triennio precedente? Per tacere della famigerata lotteria delle tre buste, che ha inserito un ulteriore motivo di confusione anche nelle commissioni d’ esame chiamate ad effettuare per la prima volta e “senza rete” un esame quasi nuovo di zecca.
Eppure la tanto vituperata scuola italiana non appare così disprezzabile, se sforna ogni anno alunni diplomati e successivamente laureati che vengono immediatamente assunti all’ estero e se il rapporto tra docenti e alunno appare sensibilmente migliorato rispetto a quello pre-autonomia. E non si parla qui soltanto di quello relazionale, diventato meno distante e professionale, più umano e accogliente e inteso ad accorciare- nei limiti del mantenimento dei ruoli- le distanze, ma anche di quello improntato al supporto degli alunni che, per svariati motivi, vivono in maniera disagevole la loro presenza a scuola.
L’ inclusività è stato il corollario inevitabile di una relazione che è profondamente cambiata nel tempo e che, tuttavia, se mal gestita e non adeguatamente censurata negli effetti più deleteri, può essere foriera di eventi che, fino a due anni fa, riempivano puntualmente le cronache dei giornali. Se, infatti, accogliere gli alunni più disagiati è cosa di per sé meritevole e degna di una nazione civile, è anche vero che è necessario che il legislatore metta i docenti e il Dirigente Scolastico, che del rispetto della legge è garante, nella possibilità di ben operare, equilibrando la propria azione nel rispetto dell’alunno in quel momento in difficoltà, ma anche della classe in cui l’alunno è inserito, oltre che della sicurezza dello stesso docente in quel momento in aula.
Vero è che la parola “disagiato” presenta difficili connotazioni perché contempla problematiche socio-economiche, che talora sfociano in situazioni di serio degrado ambientale , o di malessere legate alla famiglia di provenienza o a problemi di salute certificati da referti clinici. Una galassia di casi diversificati che vanno trattati dagli operatori scolastici con tutto l’equilibrio e la prudenza del caso, necessari e anzi indispensabili quando si tratta, soprattutto, di adolescenti in fase di crescita e di acquisizione identitaria. E’ cosa nota che per tali casi (sempre più numerosi negli ultimi anni), il consiglio di classe ha l’obbligo di redigere il PDP (Piano Didattico Personalizzato), distinguendo il DSA dal BES e segnalando alla famiglia e all’alunno gli strumenti messi in atto dal consiglio stesso per lo svolgimento sereno dell’attività didattica.
La normativa sull’ inclusività, pur con qualche falla che- se casualmente o no sarebbe da discutere-non garantisce sempre la puntuale e coerente applicazione della stessa, è stata un traguardo non da poco, che nella scuola gentiliana pur apprezzabile per altri versi, non esisteva affatto. La possibilità di declinare la propria didattica a tutto vantaggio dell’ alunno DSA o BES, consentendo al tempo stesso alla restante parte della classe di operare in serenità e senza alcun battuta d’ arresto, ha prodotto effetti anche sulla formazione dei docenti – talvolta restii nei confronti dei corsi di formazione e/o aggiornamento-e sulla loro specializzazione, consentendo loro di aprire a se stessi orizzonti, anche metodologici, prima inesplorati, e di operare in sinergia con gli altri docenti del consiglio di classe.
Eppure non possiamo chiudere gli occhi davanti ad alcuni problemi che, come accade spesso, emergono nella prassi quotidiana e dal confronto con le famiglie. Redigere un PDP non dovrebbe essere compito del coordinatore, solito cireneo a cui di regola il consiglio delega la compilazione dello stesso, ma di tutti I docenti del consiglio, poiché la conoscenza dell’ alunno in difficoltà e le relative contromisure per colmarne il gap non sono di pertinenza del singolo docente, ma espressione di tutti e in questo senso ogni docente può aver osservato elementi utili, che, se uniti coerentemente, concorrono a fornire un quadro il più possibile completo dei bisogni educativi dell’ alunno di riferimento. Non bastano le certificazioni cliniche o le osservazioni pedagogiche talora generiche e vaghe ad inquadrare il caso in questione all’ interno di un documento che, per un anno, sarà la stella polare, il paradigma didattico- metodologico di riferimento di tutto il consiglio di classe, dell’ alunno e della sua famiglia. Solo la famiglia, infatti, può fornire gli elementi a supporto e a corredo del PDP, ma anche periodici incontri del coordinatore o del referente DSA/BES d’istituto (alcune scuole possiedono questa figura, utile al coordinamento generale) con l’alunno possono trasmettere un’idea di benessere o di malessere del suo “stare in classe o a scuola”.
L’ alunno va conosciuto a fondo nella sua psicologia, nel suo relazionarsi con i compagni e l’istituzione scolastica, nelle sue fragilità: ben vengano, dunque, i confronti con eventuali esperti esterni o docenti di supporto che ne seguano magari da anni il percorso, che ne conoscano i punti deboli e le difficoltà a confrontarsi con l’assenza di calcolatrici,o la presenza di poderosi manuali, produzioni scritte, verifiche da sostenere, formule chimiche o matematiche da memorizzare; ben venga il dialogo aperto e senza infingimenti con l’ alunno stesso, alla ricerca di metodologie che non si limitino all’ uso del PC e del correttore automatico per evitare gli errori ortografici (disortografia) o della mappe concettuali o della calcolatrice per il calcolo immediato di un’ espressione o di una radice quadrata.
Si studino dell’alunno le vere inclinazioni: alcuni alunni dislessici, ad esempio, non gradiscono l’ utilizzo del PC ma preferiscono, ad esempio nelle produzioni scritte di discipline umanistiche, supporti di altra natura, come l’ accorciamento della versione di greco o di latino o la diminuzione delle consegne nella verifica di analisi del testo, oppure più tempo per la riflessione e, soprattutto, per la redazione e l’ indispensabile e accurata revisione, o ancora la verifica orale programmata. Alcuni vivono la propria condizione con difficoltà e non sempre la esprimono davanti ai compagni, spesso per paura di essere discriminati o di essere additati come favoriti dai docenti perché godono di alcuni strumenti che li compensano o li dispensano dalla normale prassi quotidiana di studio e verifica. Ciò non implica che gli alunni con DSA non possano essere bocciati: se il consiglio di classe, operando secondo normativa e approntando per tempo, secondo le giuste considerazioni didattiche e pedagogiche, il PDP, dovesse trovarsi nell’ impossibilità di valutare positivamente le prove dell’ alunno, poiché quest’ ultimo appare disinteressato alle discipline, non incline allo studio domestico e superficiale nell’ accostarsi ai propri doveri scolastici, il consiglio di classe può determinarne la non ammissione alla classe successiva come per qualsiasi alunno non DSA o non BES.
Così un ricorso avverso la decisione di un consiglio di classe di non promuovere alla classe successiva un alunno è stato respinto dal TAR del Friuli Venezia-Giulia: la famiglia dell’alunno aveva sottolineato l ‘ Illegittimità per violazione di legge (con riguardo alla L. 170/2010 ed al D.M. 5669/2011 ed alla L. 241/90) ed eccesso di potere per violazione dei principi di ragionevolezza, di proporzionalità, di buon andamento nonché per ingiustizia manifesta e per difetto di istruttoria, cioè in buona sostanza il consiglio di Classe non avrebbe adempiuto agli obblighi pianificati nel PDP per compensare lo svantaggio iniziale dell’ alunno.
La sentenza del TAR ha evidenziato, confortata da altre sentenze precedenti (tra le molte, quella del T.A.R. Abruzzo, Pescara, Sez. I, n. 325 del 2015), che la valutazione dell’alunno è comunque effetto della discrezionalità tecnica dei docenti e che la loro valutazione è insindacabile. L’eventuale non adempimento alle procedure previste dal PDP non inficia in alcun modo il giudizio complessivo del consiglio di classe, poiché anche l’utilizzo degli strumenti e delle misure per avvantaggiare l’alunno non può prescindere dalle conoscenze, competenze e abilità acquisite.
Se dunque il legislatore ha espresso la chiara volontà di salvaguardare gli alunni e le loro famiglie con una evidente azione pedagogica ed inclusiva, deve restare altrettanto chiaro a tutti che ciò non implica la promozione alla classe successiva senza studio.
Resta, è vero, il nodo tutto italiano dei ricorsi, sempre in agguato ad ogni evento che la famiglia (spesso, infatti, è l’istituzione familiare quella che contesta) non accetta con la scusa della mancata informazione o delle eccessive pretese da parte dei docenti, ma è necessario che la scuola continui ad essere un baluardo della cultura e della legalità.
Annamaria Zizza
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