Continuano a pervenire contributi e pareri sul tema della dislessia diagnostica con troppa leggerezza. L’ultimo invito alla cautela è di stampo scientifico-universitario e, per tale motivo, non possiamo che dargli credito. A fornire lo studio è stato il Dipartimento di Psicologia dell’Università di Milano-Bicocca, per il quale solo il deficit specifico nella lettura può distinguere i dislessici.
In assenza, definire “dislessica” una persona con un qualsiasi disturbo dell’apprendimento o in difficoltà nei compiti di tipo motorio può portare a errori nella diagnosi e nella scelta delle terapie.
Lo studio nasce per verificare la coesistenza di più patologie
La ricerca, confermando che nel nostro Paese la percentuale delle persone “affette” da dislessia è compresa fra il 3 e il 5 per cento della popolazione, si è avvalsa del supporto del gruppo di ricerca del Dipartimento di Psicologia, che ha utilizzato misure di tipo comportamentale e la risonanza magnetica funzionale (fMRI, functional Magnetic Resonance Imaging).
“L’obiettivo della ricerca – ci scrive l’Università meneghina – pubblicata sulla rivista scientifica “Cortex”, è l’analisi della comorbidità nei dislessici adulti. La comorbilità – o comorbidità – in ambito medico indica la coesistenza di più patologie nello stesso individuo e il limite dei precedenti studi sul tema stava nel basarsi su misure esclusivamente comportamentali. Con l’uso combinato della risonanza magnetica funzionale e di test comportamentali specifici è stato invece possibile analizzare anche le dinamiche dei circuiti cerebrali nei pazienti dislessici e rinforzare il valore delle osservazioni”.
Dalla risonanza risulta che i deficit permanenti sono presenti solo nella lettura
I ricercatori hanno riscontrato che i dislessici adulti erano sistematicamente compromessi soltanto nella lettura e nei compiti visuo-fonologici legati alla lettura, mentre altri tipi di deficit erano solo occasionali come in qualsiasi persona non dislessica (ad esempio, deficit motori o relativi alla percezione visiva di stimoli in movimento).
I soggetti con dislessia non mostravano difficoltà nello svolgere compiti puramente uditivi, ma faticavano in quei compiti fonologici che comportavano il recupero del suono partendo da stimoli visivi.
In linea con tali risultati, la risonanza magnetica funzionale ha mostrato un più basso livello di attivazione della corteccia occipito-temporale sinistra (l-OTC, left Occipito-Temporal Cortex) solo nel compito della lettura. Questa regione del cervello, considerata un bivio naturale fra il sistema che riguarda la lettura e altri circuiti cerebrali, non ha mostrato lo stesso livello di interconnessione fra dislessici e non dislessici: si verificherebbe quindi una mancata intersezione fra codici diversi – i suoni delle parole e i loro aspetti visivi – causando una lettura più difficoltosa, ma comunque non impossibile. Alcuni dislessici sono infatti in grado di sviluppare valide strategie di compensazione e raggiungere i gradi più elevati del sistema di istruzione.
In età infantile è facile “confondere le acque”
Il campione era formato da 20 dislessici adulti reclutati fra studenti universitari e 23 controlli (individui non dislessici) con almeno 13 anni di istruzione scolastica. I test erano di quattro tipi: lettura di neologismi, percezione di stimoli legati al movimento, compiti uditivi fonologici e di apprendimento motorio. La scelta è ricaduta su persone adulte per studiare la dislessia nella sua forma più selettiva, in quanto il sistema cognitivo di un adulto può considerarsi arrivato a maturazione: in età infantile a confondere le acque ci potrebbero essere ritardi transitori nella maturazione di sistemi non cruciali per l’acquisizione della lettura.
Lo psicologo: occhio agli errori di diagnosi
«I dati appena pubblicati suggeriscono che, per quanto possa sembrare ovvio, un deficit specifico nella lettura resta la migliore descrizione della dislessia almeno per quanto riguarda gli adulti – spiega il professor Eraldo Paulesu, docente di Psicologia fisiologica all’Università di Milano-Bicocca – con chiare implicazioni pratiche per le strategie di riabilitazione. Definire una persona “dislessica” perché non riesce in compiti motori potrebbe portare a errori nelle diagnosi e nella scelta delle terapie.
Gli stessi risultati metterebbero quindi in discussione i tentativi di riabilitare pazienti dislessici utilizzando, per esempio, videogiochi basati essenzialmente su compiti puramente visivi e motori, ai quali sarebbe preferibile la logopedia, che enfatizza strategie di rinforzo nella creazione di corrispondenze fra i suoni delle parole e i simboli ortografici».
Chi ha condotto la ricerca
La ricerca, condotta dai ricercatori del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Milano-Bicocca, è stata pubblicata sulla rivista scientifica “Cortex” (L. Danelli, M. Berlingeri, G. Bottini, N.A. Borghese, M. Lucchese, M. Sberna, C.J. Price, E. Paulesu, How many deficits in the same dyslexic brains? A behavioural and fMRI assessment of comorbidity in adult dyslexics, DOI: 10.1016/j.cortex.2017.08.038) ed è stata realizzata in collaborazione con l’Università Statale di Milano, l’Università di Pavia, l’Università di Urbino “Carlo Bo” e il Grande Ospedale Metropolitano di Niguarda.
Altri interventi di esperti: la colpa è degli eccessi diagnostici
Di recente, su questo stesso argomento, abbiamo pubblicato un articolo sul pensiero in merito di Daniele Novara, pedagogista e direttore del Centro Psicopedagogico per l’Educazione e la Gestione dei Conflitti: ebbene, secondo l’esperto, ben il 75% delle diagnosi di dsa ed in particolare di dislessia sarebbero “sbagliate per eccesso diagnostico”.
Il rischio, ha detto Novara all’Ansa, è di essere in realtà di fronte a eccessi diagnostici, legati alla tendenza crescente di scuole e famiglie a scegliere la via dell’analisi della salute neuropsichiatrica del bambino, piuttosto che andare a indagarne la gestione educativa in famiglia e supportare quest’ultima in modo adeguato.