Dislessie: la diagnosi è nella memoria a breve termine
Anche il cervello umano, come un Pc, contiene un dispositivo per controllare l’apprendimento dei nuovi vocaboli associato al funzionamento della memoria a breve termine: l’equivalente umano della Ram dei computer è stato scoperto nel cervello dell’uomo durante uno studio realizzato da alcuni ricercatori del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Milano-Bicocca. Si tratta di una novità importante che nel volgere di alcuni anni potrebbe condurre miglioramenti significativi nella diagnosi di dislessie e disfasie evolutive nei bambini.
Secondo gli esperti della Bicocca attraverso tecniche non invasive, come la risonanza magnetica funzionale, sarà ora più fattibile giungere alla conoscenza delle aree cerebrali sedi del dispositivo di apprendimento del vocabolario: in modo da contribuire allo sviluppo di strumenti diagnostici per identificare ritardi del linguaggio con una base neurologica distinguendoli da manifestazioni di disagio prive di basi di questo genere. “In futuro – spiegano i ricercatori del polo accademico e di ricerca milanese – una più precisa e rapida diagnosi di tali disturbi potrà così consentire di iniziare precocemente e specificamente gli interventi di logopedia”.
Ma come si è giunti a questa conclusione? Per anni si è infatti ritenuto che l’apprendimento di nuovi vocaboli dipendesse dalla memoria a lungo termine. Una convinzione, quest’ultima, basata sulle osservazioni fatte nel famoso paziente Henry Gustav Molaison, più famoso agli addetti ai lavori come ilpaziente Hm:un signore vittima di un errore neurochirurgico che non riusciva più ad accumulare nuovi ricordi, incluse nuove parole.
Lo studio degli scienziati della Bicocca, di prossima pubblicazione sulla rivista “NeuroImage”, realizzato dal Dipartimento di Psicologia e di Neuroscienze e Tecnologie Biomediche dell’Università di Milano-Bicocca, in collaborazione del Cnr di Roma e Milano e dell’Università Vita e Salute del San Raffaele di Milano, ha interessato 12 soggetti sani dal punto di vista cognitivo che sono stati sottoposti a esperimenti di attivazione con la tecnica Pet (tomografia ad emissione di positroni): l’obiettivo era evidenziare le aree cerebrali implicate nell’apprendimento delle nuove parole.Sono stati loro sottoposti una serie di neologismi, selezionati in modo tale da non essere facilmente associabili a parole italiane. I volontari dovevano, quindi, apprendere le nuove parole in associazione a parole reali: le coppie nate da questo match casuale, con le quali i volontari si sono misurati, danno luogo a suoni suggestivi; una sorta di ritmo della memoria: chirurgo-ponole, barile-ghevorta, reclamo-gitolla. Lo studio ha previsto anche un compito di controllo durante il quale i volontari hanno appreso più semplicemente coppie di parole esistenti (es: giardino-tiranno; pietra-gabbiano; abisso-confetto).
Preparato il materiale sperimentale, i volontari sono stati sottoposti,attraverso la Pet, ad una scansione cerebrale: una tecnica che produce immagini tridimensionali contenenti informazioni circa il flusso cerebrale delle diverse aree del cervello. La scansione è stata condotta durante il processo di apprendimento. Le immagini così raccolte, dopo una serie di analisi statistiche, hanno permesso di evidenziare quali fossero le aree maggiormente attivate durante l’acquisizione di nuovi vocaboli.
“La nostra ricerca ci ha permesso non solo di identificare le aree cerebrali implicate nell’apprendimento dei nuovi vocaboli –ha spiegato alla fine dello studio Eraldo Paulesu, docente di Psicobiologia presso l’Università di Milano-Bicocca e coordinatore della ricerca – ma anche la dinamica di tale apprendimento: l’acquisizione di nuove parole sembra comunque un fenomeno prevalente dell’emisfero sinistro. La particolare predisposizione di tale emisfero ad imparare nuovi vocaboli è probabilmente un altro segno della sua dominanza per il linguaggio”.