Nell’ambito della nostra iniziativa “Dillo al Ministro” molti docenti hanno voluto dire la loro sul tema della dispersione sottolineando che si tratta certamente di uno dei problemi più urgenti da affrontare e da risolvere.
Le soluzioni proposte vanno dalle classi meno numerose fino ad una revisione dei programmi in modo da renderli più adeguati alle esigenze e ai bisogni degli studenti.
In realtà il tema appare molto complesso anche perché nonostante le risorse finanziarie e umane fin qui messe in campo i livelli della dispersione scolastica non sono scesi secondo le attese.
Ne parliamo con Francesca Di Liberti, dirigente scolastico del Liceo Statale Regina Margherita di Torino, referente della rete nazionale dei licei socio-economici.
Come stanno le cose, dirigente?
Già da molti anni esistono dispositivi normativi che hanno costituito un valido supporto per progettare percorsi personalizzati, attraverso l’adozione di documenti tecnici elaborati dai singoli consigli di classe, a fronte di una rinnovata ampiezza del fenomeno della “perdita” non solo in termini di esiti scolastici, ma soprattutto in termini di motivazione, di crescita delle nostre studentesse e dei nostri studenti,
E’ vero, ma, a quanto pare, questo impegno, indubbiamente importante, non stanno dando risultati sufficienti
Certo, stiamo parlando di misure che in passato hanno prodotto efficaci risultati quando opportunamente condivisi da studentesse, studenti e adulti, ma che oggi non sono più sufficienti a garantire il successo formativo, anche a causa del raddoppio dei bambini e dei ragazzi che manifestano fragilità di varia natura e l’idea.
Ma nelle scuole, nei collegi dei docenti, c’è dibattito su questo tema?
Direi di sì, e ciò che emerge dalle riflessioni dei docenti è la necessità di una personalizzazione che non si esaurisca in una misura tecnica e nemmeno in un intervento extra-curricolare, ma in pratiche efficaci che diventino “sistema”.
Nella sua esperienza personale cosa ha potuto constatare?
Nella mia dimensione di dirigente scolastico di una scuola che accoglie centinaia e centinaia di ragazze e ragazzi che vivono disagio, sofferenza, perdita di fiducia e di speranza, e di un collegio dei docenti che ha fatto dell’inclusione la mission del proprio agire quotidiano, non posso non condividere le sollecitazioni che provengono dall’analisi dei dati sugli esiti, sull’abbandono scolastico, sul numero degli studenti che manifestano disagio, sulla dispersione implicita, e dalle istanze provenienti dai docenti.
Non dimentichiamo che da un paio di anni a questa parte sono disponibile anche importanti risorse derivanti dal PNRR
Infatti, ed io auspico che alcune delle misure previste al PNRR, Agenda SUD, o PN quali mentoring e coaching, orientamento, coinvolgimento delle famiglie non siano legate all’esaurimento dei fondi stanziati e possano diventare “sistema” attraverso il potenziamento degli organici ed il reclutamento di personale formato.
Bisogna anche rivedere l’organizzazione scolastica?
Certamente, da tempo io mi auguro un ripensamento di un tempo/scuola che non può più coniugarsi con la poliedricità delle azioni necessarie ad una personalizzazione dei percorsi formativi, che generi competenze e crescita e che favorisca la costruzione di relazioni educative tra docenti e studenti che non si basino sul numero dei minuti passati insieme ma sulla qualità dei percorsi progettati e delle misure attuate.
Bisogna pensare ad un tempo/scuola che non sia gravato da integrazioni di ore in più ma che miri alla trasversalità e alla collegialità dell’azione didattica.
Più tempo, ma soprattutto, tempo utilizzato meglio: è così?
Esattamente: dobbiamo mettere in campo relazioni educative che recuperino l’idea di “felicità”, di “valore” che investano sia il docente, “maestro” in ogni senso, sia gli studenti, che scoprono che anche la fragilità e l’elaborazione del proprio vissuto possono essere un essere un punto di partenza o di ripartenza nella costruzione del proprio progetto di vita.