Roberto Ricci, responsabile nazionale Invalsi, torna sui dati presentati il 14 luglio e commenta: “I dati Invalsi hanno avuto un certo rilievo nazionale in quanto mostrano una situazione preoccupante del Paese. Nella scuola primaria gli esiti non cambiano in modo sostanziale rispetto al 2019. Gli esiti non cambiano ma sono riconducibili alle grandi differenze esistenti tra le classi e tra le scuole”.
Lo afferma in Commissione Lavoro, in merito all’indagine conoscitiva sulle nuove disuguaglianze prodotte dalla pandemia nel mondo del lavoro.
“Un altro elemento che rimane è che le piccole differenze che si riscontrano nella scuola primaria poi si amplificano nei gradi successivi. Gli alunni che terminano i traguardi al di sotto di quelli stabiliti dalle indicazioni nazionali che sono legge nazionale dal 2012, passa in italiano dal 34% al 39% nella scuola secondaria di primo grado. Una percentuale che in matematica arriva al 45%. Predittore di insuccesso scolastico”.
“Purtroppo gli insuccessi si concentrano tra gli allievi che fanno parte di un contesto socio-culturale svantaggiato. Sembra che la pandemia e la sospensione della didattica in presenza abbiano tolto benzina proprio nell’ambito di questi contesti”. Una differenza che cresce in determinate classi, segno che la distribuzione dei ragazzi nelle classi non sempre è equa.
“Ad ogni modo, non è vero che la scuola media sia una sorta di buco nero – ribadisce il responsabile Invalsi -, in realtà la scuola media è solo quel settore dell’istruzione in cui le differenze iniziano a essere più visibili, ma le differenze crescono ulteriormente nella scuola superiore”.
Nel caso della scuola secondaria superiore, infatti, anche l’inglese mostra dei segni estremamente negativi”. Il trend è stabile ma al ribasso. In altre parole “dopo 13 anni di scuola non si raggiunge il livello B2, stabilito dal legislatore”.
E torna anche sul tema della dispersione implicita: “Studenti che simultaneamente sia in italiano che in matematica che in inglese terminano il percorso scolastico con competenze al massimo che ci dobbiamo attendere in secondo superiore. Parliamo di 42mila 19enni. Ragazzi in condizione di estrema fragilità pur non essendo realmente dispersi. Conseguono la maturità ma con estrema fragilità”.
Conclude chiamando in causa la DaD: “Ingiusto attribuire questi risultati alla didattica a distanza. La DaD può avere fatto alcune cose e altre no ma è evidente che parliamo di problemi aggravati dalla pandemia ma preesistenti. Se invece vogliamo cercare alcuni aspetti positivi, la scuola conta, eccome, nel fare la differenza. L’importanza di erogare il servizio scolastico in tutte le sue potenzialità è fondamentale per limitare gli effetti che abbiamo visto”.
Su sollecitazione del Parlamento Roberto Ricci affronta anche il tema delle classi pollaio e dichiara: “Non spetta a me dire quale soglia faccia di una classe una classe pollaio, ma tutti i dati ci dimostrano che non è rilevabile una relazione diretta tra la dimensione media della classe e gli apprendimenti, quando questa classe è sotto i 25 o 26 studenti, e, nel caso italiano, la quasi totalità delle classi si trova sotto questa soglia. Ma vale la pena notare cosa avviene sotto i casi medi. Si dimostra abbastanza chiaramente nel caso italiano. Per quel tipo di scuole che ospitano la popolazione con un percorso più solido, che spesso proviene da famiglie con più possibilità (vedi i licei), non c’è dimostrazione empirica di correlazione tra dimensione della classe ed esiti degli apprendimenti. Al contrario nei casi della popolazione più fragile (i tecnici) questa relazione c’è. La scuola, insomma, non è un unicum, bisogna tenere in considerazione queste differenze. Riducendo di 2 o 3 unità la classe non c’è evidenza empirica che la didattica sia diversa e abbia un miglioramento, ma le esperienze migliori (best practices) del nord Europa ci mostrano che è fondamentale per gli studenti fragili avere docenti aggiuntivi e attività aggiuntive”. Una strategia fondamentale sarebbe quindi “anziché avere classi più piccole, avere risorse docenti in più per aiutare gli studenti in difficoltà, soprattutto nell’ambito dell’istruzione tecnica e professionale”.
Infine conclude raccomandando di mantenere alta l’attenzione nei confronti della scuola primaria. “La scuola primaria rappresenta le fondamenta dell’edificio. Quando è debole la primaria, rischia di venire compromesso tutto ciò che segue”.
Nonostante il ruolo dell’Istituto nella rilevazione nazionale delle competenze degli studenti italiani, i più farebbero volentieri a meno delle prove Invalsi. Lo rivela il sondaggio della Tecnica della Scuola, per il quale più del 90% di studenti e genitori non le vuole più; e anche 8 docenti su 10 dicono basta.
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