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Dispersione scolastica e povertà educative, quando scuola e Parlamento fanno fronte comune: l’evento a Roma

Drop out è il nome che viene dato, nel mondo anglosassone, agli allievi in dispersione. L’immagine è quella della goccia caduta fuori dal vaso che, insieme a tutte le altre, avrebbe dovuto contenerla.

Essere in dispersione significa tante cose: disagio personale; senso di fallimento; mortificazione del proprio patrimonio di potenzialità; prospettive di lavoro e di vita che diventano più ardue. Una vita difficile: è il titolo di uno dei più bei film interpretati da Alberto Sordi. Ecco, la dispersione scolastica rappresenta spesso il prodromo statistico di una vita difficile, di un futuro (oltre che di un presente) in cui è difficile orientarsi per ritrovare il proprio ruolo nella società e forse, perfino, per ritrovare più pienamente se stessi.

Che ci faccio qui? E’ la vera domanda -una domanda di senso, quindi, molto seria- che urge dentro, spesso silenziosa, in tanti ragazzi e ragazze. Una domanda quindi che non può essere liquidata in modo pedagogicamente elusivo: E’ il tuo dovere! Un giorno magari capirai. La domanda rimane (e fa bene a rimanere): A che mi servono queste materie e queste ore di studio (oggi)? Perché devo stare in un posto in cui comunque sto male, in cui crolla la mia stessa autostima?

Attraverso quali strumenti può intervenire la scuola per dare una risposta a queste domande di senso, per arginare il fenomeno della dispersione e del disagio scolastico? Su quali leve puntare per salvare più vite?

E’ la domanda che si pongono i tanti operatori che, con ruoli diversi, lavorano ormai da anni attorno al “Tavolo delle associazioni contro la dispersione scolastica e le povertà educative”, che riunisce una ventina di associazioni (di docenti, dirigenti scolastici, studenti, genitori) e diversi parlamentari dei vari schieramenti. Il prossimo appuntamento è il convegno che si terrà il 3 ottobre 2024, dal titolo “Dispersione scolastica: dai dati alle buone pratiche” (Sala degli Atti Parlamentari – Biblioteca del Senato “Giovanni Spadolini”, in piazza della Minerva, 38, a Roma).

L’obiettivo, all’insegna del principio dell’unità per il bene comune, è infatti quello di mantenere costantemente l’attenzione puntata sul problema e di creare un dialogo che, a partire dall’ascolto attento delle proposte che arrivano dal basso, da chi si spende per la scuola quotidianamente, porti a delle riforme e prospettive concrete di cambiamento.

Le indicazioni che sono emerse in questi anni e che sono state condivise col mondo politico toccano varie questioni fondamentali, come la formazione degli insegnanti; un buon orientamento formativo; la personalizzazione educativa; l’introduzione nei curricoli di una efficace educazione socioemotiva; la creazione di un vero middle management; politiche che favoriscano una più alta percezione e considerazione sociale del ruolo dell’insegnante; una maggiore flessibilità organizzativa e temporale per le scuole. E  si potrebbe continuare.

Certamente, una delle questioni più sollevate è quella del reclutamento dei docenti, per una selezione attenta del corpo insegnante. Oggi, chiunque abbia superato un concorso o una selezione per l’accesso al TFA sostegno può diventare insegnante, compreso chi non ha una particolare vocazione e forse, cosa ben più grave, neanche una minima predisposizione per questo complesso e delicatissimo lavoro.

C’è però da chiedersi quale supporto possa dare, a uno studente già gravemente demotivato e frustrato (e spesso disorientato), un insegnante che, a sua volta, suo malgrado, si trova comunque a vivere sotto il peso frustrante della propria personale demotivazione. Anzi, della peggiore forma di demotivazione: quella profonda e strutturale che nasce non da aspetti contingenti della vita, ma dal proprio avvertirsi, nei fatti, fuori vocazione nel lavoro che svolge.

Insomma, la terribile ma fondamentale domanda di senso “Che ci faccio qui?” va presa sempre molto seriamente. E non solo quando si parla di studenti.

Giovanni Morello

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