Come già più volte La Tecnica della Scuola ha evidenziato, la dispersione scolastica è un problema gravissimo della Scuola italiana.
Le colpe, spesso, sono addossate tutte alla Scuola stessa, descritta dai media mainstream come antiquata, vetusta nella didattica, fondata su un inutile accumulo di nozioni, rigidamente meticolosa, vanamente noiosa; e, in quanto tale, classista (se simili censure provengono da sinistra) o “estranea al mercato” (se gli attacchi arrivano da destra).
Pesa, su entrambe queste critiche alla Scuola (e ai suoi insegnanti), un’ideologia diffusissima dal 1968 ad oggi, i cui assiomi sono oggi un autentico dogma religioso: il donmilanismo.
Infatti, pur senza voler nulla togliere alla figura di don Lorenzo Milani e alla sua buona fede, bisogna riconoscere che la pur nobile passione del priore di Barbiana per l’insegnamento e per il riscatto dei diseredati ha innescato nella maggioranza degli Italiani degli ultimi cinquant’anni la convinzione secondo cui il sapere è inutile, noioso, classista, borghese.
Conseguenza di questa radicata convinzione è un’altra radicata convinzione, non meno acritica e sguaiata: secondo la quale la Scuola italiana va demolita e ricostruita ex novo, con criteri opposti, ove i contenuti da imparare siano pochi, semplici, legati all’utilità pratica.
Una simile religio nacque dunque nelle fila della Sinistra di matrice sessantottesca, come ideologia di liberazione delle masse, sfruttate sul lavoro ed oppresse nella “Scuola dei padroni”, i cui squallidi aguzzini piccolo borghesi erano i docenti.
Dapprima questa stessa religio era aborrita dalla Destra statalista di un tempo, cui cinquant’anni fa piaceva raffigurarsi come sacerdotessa della Cultura (con la C maiuscola).
Negli anni Settanta, però, quando è andato affermandosi tra i ceti dominanti il Verbo neoliberista propugnato dalla Trilateral Commission, dal Gruppo Bilderberg, dalla scuola economica di Chicago, sperimentato nel Cile di Augusto Pinochet, nell’America di Ronald Reagan e nel Regno Unito di Margareth Thatcher, e poi diffuso a macchia d’olio in tutto il mondo, gli stessi ceti egemoni hanno cominciato a guardare alla Scuola in modo molto diverso rispetto alla Destra tradizionale.
Fu così che il donmilanismo imperante tra gli intellettuali di sinistra cominciò ad essere utilizzato anche dalle forze conservatrici, consapevoli del potere della cultura come forza liberatrice, in quanto capace di sviluppare il sapere critico in chi della cultura è partecipe.
Alla Lettera a una professoressa di don Milani, infatti, anche la Fondazione Agnelli ha più volte espresso il proprio apprezzamento. E la religio di don Milani è diventata instrumentum regni.
Paradossalmente, dunque, gli strumenti dialettici di certa Sinistra sono diventati armi nelle mani della Destra; la quale, ovviamente, li usa per i propri interessi. Scriviamo “certa” Sinistra per indicare quella Sinistra che, consapevolmente, ha fatto del sacerdote cattolico Lorenzo Milani la propria bandiera, ignorando il pensiero di Antonio Gramsci in materia di istruzione.
Nelle carceri fasciste, il fondatore del PCI scriveva testualmente: «Anche lo studio è un mestiere e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio anche nervoso-muscolare, oltre che intellettuale: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo e il dolore e la noia. La partecipazione di più larghe masse alla scuola media tende a rallentare la disciplina dello studio, a domandare facilitazioni».
Quanto allo studio delle lingue classiche, Gramsci aggiungeva: «Il latino non si studia per imparare il latino, si studia per abituare i ragazzi a studiare, ad analizzare un corpo storico che si può trattare come un cadavere ma che continuamente si ricompone in vita. Naturalmente io non credo che il latino e il greco abbiano delle qualità taumaturgiche intrinseche: dico che in un dato ambiente, in una data cultura, con una data tradizione, lo studio così graduato dava quei determinati effetti. Si può sostituire il latino e il greco e li si sostituirà utilmente, ma occorrerà sapere disporre didatticamente la nuova materia o la nuova serie di materie, in modo da ottenere risultati equivalenti di educazione generale dell’uomo, partendo dal ragazzetto fino all’età della scelta professionale. In questo periodo lo studio o la parte maggiore dello studio deve essere disinteressato, cioè non avere scopi pratici immediati o troppo immediatamente mediati: deve essere formativo, anche se «istruttivo», cioè ricco di nozioni concrete».
Ma che cosa pensava Gramsci della Scuola con scopi pratici, “affrancata” dalla cultura “alta”? Lo chiarisce egli stesso nel medesimo testo scritto in carcere: «Nella scuola moderna mi pare stia avvenendo un processo di progressiva degenerazione: la scuola di tipo professionale, cioè preoccupata di un immediato interesse pratico, prende il sopravvento sulla scuola “formativa” immediatamente disinteressata. La cosa più paradossale è che questo tipo di scuola appare e viene predicata come “democratica”, mentre invece essa è proprio destinata a perpetuare le differenze sociali. (…) Ecco perché molti del popolo pensano che nella difficoltà dello studio ci sia un trucco a loro danno; vedono il signore compiere con scioltezza e con apparente facilità il lavoro che ai loro figli costa lacrime e sangue, e pensano ci sia un trucco. In una nuova situazione politica, queste quistioni diventeranno asprissime e occorrerà resistere alla tendenza di rendere facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato. Se si vorrà creare un nuovo corpo di intellettuali, fino alle più alte cime, da uno strato sociale che tradizionalmente non ha sviluppato le attitudini psico-fisiche adeguate, si dovranno superare difficoltà inaudite»
(Quaderni dal Carcere, 4 [XIII], 55). Una risposta anticipata all’ideologia della “didattica per competenze”.
Eppure anche ai tempi di Gramsci, cent’anni or sono, molti esponenti socialisti e comunisti ritenevano che la cultura elevata non servisse agli operai né ai contadini, perché inutile orpello delle classi dominanti, che se ne servono come strumento di dominio. E su questo terreno, nei trent’anni appena trascorsi, Destra e Sinistra politica hanno più volte dimostrato di avere della Scuola la medesima concezione e di fare scelte identiche: i cui brillanti risultati – anche in termini di abbandono scolastico – sono purtroppo sotto gli occhi di tutti.
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