Una delle voci che più hanno influito sulla politica scolastica degli ultimi 20 anni è quella di Attilio Oliva, industriale e dottore in filosofia, nonché Coordinatore delle ricerche e Presidente dell’”Associazione Treellle”, Vice Presidente esecutivo e Amministratore delegato dell’Università Luiss dal 2004 al 2008, responsabile della Commissione Scuola di Confindustria dal 1996 al 2000 e, prima ancora, Presidente di Confindustria Genova (e poi di Confindustria Liguria) dal 1989 al 1998. Molte delle sue proposte sono diventate punto di partenza della politica scolastica recente.
La Tecnica della Scuola lo ha intervistato, a margine del Convegno “Promuoviamo la scuola: innovazione didattica, un ponte verso il futuro” — tenutosi Roma il 25 ottobre scorso nei locali di Palazzo Montecitorio per iniziativa di Lucia Azzolina, Sottosegretario del MIUR:
Presidente Oliva, come pensa vada affrontato il problema della dispersione scolastica? Con quali strumenti, metodi, risorse?
È la piaga sociale più grave del nostro Paese e degli altri Paesi europei. Tutti hanno una quota di dispersione scolastica, tutti la combattono e la considerano il problema più importante. Però, mentre gli altri Paesi hanno il 5-10% di dispersione, noi abbiamo il 15-20%. Il nostro è un dato anomalo rispetto agli altri paesi evoluti. La dispersione nasce dalle condizioni ambientali e familiari. Ambienti deprivati economicamente e culturalmente generano famiglie deprivate di mezzi culturali ed economici: il che sicuramente determinerà nei loro figli carenze tali di linguaggio e di comprensione, da renderli poi ostici a qualunque formazione. Di conseguenza questi ragazzi, per le difficoltà che trovano, abbandonano. Quindi il vero problema è nelle zone d’Italia deprivate culturalmente ed economicamente. Per affrontare questa piaga, proponiamo che la Scuola inizi obbligatoriamente a tre anni, non a sei, perché dai tre ai sei anni si formano pregiudizi, linguaggi, mentalità difficilmente recuperabili. La Scuola deve sopperire da subito col proprio lavoro alle carenze familiari e ambientali in zone deprivate. Questa è la nostra prima nostra proposta “forte”. La seconda è: la Scuola non finisca alle 13,00. Negli altri Paesi europei non è così: solo in Italia “all’una tutti a casa”, ragazzi e insegnanti. Non va bene. È una pessima abitudine del nostro Paese.
Quindi tempo pieno?
Non tempo pieno: semmai “tempo lungo” o “disteso”, o “lento”. Vuol dire che nel pomeriggio si fa Scuola, ma non lezione: sarebbe una stortura grave, che farebbe fuggire ancor più ragazzi di quelli che ora fuggono per “insopportazione di lezioni trasmissive”. I ragazzi hanno un limite, che non si può valicare. Già fanno 30 ore di lezione, il massimo che ci sia in Europa. Le scuole devono restare aperte il pomeriggio, per attività formative che non siano lezioni: attività anche opzionali (sport, arti, musica, teatro, dibattito e quant’altro si voglia inventare in relazione agli ambienti scolastici). Saranno le scuole, secondo gli ambienti in cui operano, il pubblico e il tipo di studenti che hanno, a inventarsi e praticare le soluzioni migliori. La scuola dovrebbe chiudere alle 17,00 o alle 18,00, offrendo naturalmente mense agli studenti. Ciò maturerebbe una cittadinanza più solidale e collaborativa di quella attuale, che invece costruisce cittadini-individui, che lavorano e studiano da soli, non collaborano cogli amici, non interloquiscono cogli insegnanti.
E cosa pensa della dispersione “implicita” o “occulta”?
È quella che l’Invalsi ha opportunamente misurato con le indagini censuarie (cioè su tutta la popolazione studentesca di 15 e 18 anni), recentemente pubblicate. Infatti i “voti” scolastici sono scarsamente significativi, perché i docenti li danno con criteri molto arbitrari (non è un caso che nel Sud siano tutti 100 e lode differenza del Nord, mentre i risultati delle prove Ocse e Invalsi danno risultati opposti). L’Invalsi ha rimarcato che almeno un 7% di diplomati non ha i requisiti minimi per praticare azioni coerenti alle informazioni che posseggono. Quindi oltre al 14% di abbandoni (già misurato come abbandoni fisici perché non prendono un diploma) c’è un altro 7% di ragazzi (detto appunto “abbandono implicito”) che sono di fatto analfabeti funzionali. Perciò si va oltre il 20%. È un ragazzo su 5; un’enormità.
Secondo lei cosa si può fare per contrastare questo fenomeno?
Come dicevo prima: Scuola obbligatoria a tre anni; quindi sopperire alle carenze ambientali e familiari per le famiglie meno acculturate; tenere i ragazzi più tempo a scuola per attività formative che li allenino a lavorare assieme, per progetti, con attività di volontariato, praticando anche attività in cui i ragazzi possano investire anche per divertimento, interesse, curiosità; con materie opzionali, in modo che ognuno scelga quel che gli piace. Una Scuola più attraente e attrattiva di quella attuale. Oggi “scuola” è sinonimo di sacrificio, fatica, noia, ansia. Non ha senso che un ragazzo dai 3 ai 18 anni viva in questo clima; o che, per evaderne, vada in strada o si rinchiuda in casa da solo coi videogiochi.
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