Negli ultimi trent’anni le scuole italiane sono state private di gran parte dei finanziamenti. Gli edifici sono invecchiati, tanto che ormai la massima parte di essi non rispetta le norme di sicurezza, e molti sono addirittura fatiscenti. Nel frattempo, in barba all’art. 33, comma 3 della Costituzione, sono state finanziate le scuole private (che sono per la maggior parte cattoliche, cioè confessionali, sebbene lo Stato italiano sia laico).
I docenti delle scuole (per buona parte precari) sono stati impiegatizzati, e conseguentemente sottoposti al Preside “Dirigente Scolastico” e “datore di lavoro”, mentre imperversava una feroce e pluridecennale campagna mediatica volta denigrarli, ridicolizzarli, criminalizzarli. Lo studio frattanto veniva parimenti svalutato, deriso, screditato.
Come stupirsi, in una situazione del genere, che anche la disaffezione degli adolescenti nei confronti della Scuola sia cresciuta? Come sorprendersi se i giovanissimi non sentono più il fascino della cultura, della conoscenza, del sapere disinteressato (espressione gramsciana) e di chi è deputato a trasmetterlo? Come meravigliarsi se, fissi dentro il proprio smartphone, siano incapaci di accorgersi che magari hanno davanti a sé un insegnante davvero bravo, che può trasformare in meglio la loro vita tirando fuori i lati migliori della loro personalità?
Oggi i giovanissimi sono malati di tecnologismo: un tecnologismo che li possiede totalmente, e cui essi hanno delegato tutte le proprie facoltà cognitive. Non sarà dunque con il tecnologismo che potremo curarli.
È esperienza comune degli insegnanti di lettere (persino nel Ginnasio!) il trovarsi di fronte a classi di trenta (o più) inebetiti quattordicenni, venti dei quali non comprendono le domande e non sanno coniugare il passato remoto del verbo “correre” («io corréi, tu corréi, egli corrétte, essi corrérono»!), che scrivono “chiesimo” per “chiedemmo”, “a egli” anziché “a lui”, “egli dicono” anziché “essi dicono”, “a li uomini” anziché “agli uomini”.
E mentre i docenti vengono bombardati da sigle da fantasia orwelliana come BES, DSA, PTOF, PON RAV, INVALSI, INDIRE, USR, fanno lezione in aule fatiscenti, caldissime sei mesi l’anno (perché le scuole sono gli unici edifici pubblici senza climatizzazione), a finestre forzatamente aperte per non soffocare, costretti a urlare per sovrastare il chiasso proveniente dall’esterno.
Qualcuno ha pensato che tutto ciò possa generare disaffezione e voglia di fuggire, non solo negli insegnanti ma soprattutto negli studenti?
A fuggire sono naturalmente soprattutto i giovani delle periferie immiserite dai tagli e dalla macelleria sociale effettuata dagli ultimi Governi, fedeli esecutori delle politiche neoliberiste comandate da Fondo Monetario Internazionale, Commissione Europea, Banca Centrale Europea, multinazionali, banche, Confindustria e via sfavillando.
Ed ora non è facile ribaltare questa situazione, anche perché tutto, come sempre, è unicamente affidato alle poderose spalle dei docenti, immiseriti anche loro e privati della considerazione sociale che meriterebbero in un Paese civile.
La verità è che nelle Scuole ci vorrebbero più soldi: non tanto (e non soltanto) per lavagne multimediali e “progetti”, ma per dimezzare il numero di alunni per classe, per ripristinare ore, materie e laboratori tagliati dalla “riforma” Gelmini, per eliminare il vergognoso “bonus” premiale ed aumentare di almeno mille euro netti lo stipendio mensile di tutti i lavoratori della Scuola (ATA compresi), grazie ai quali la Scuola ancora sopravvive.
La Scuola ha bisogno di piani territoriali che la rendano più accogliente, più ricca di biblioteche e di spazi; perché chi la frequenta si senta un po’ come a casa propria; anzi, meglio che a casa propria.
La verità è che i docenti devono tornare ad essere considerati, da chi Governa e dai cittadini tutti. Per ottenere ciò, devono tornare ad essere professionisti dell’educazione, e non impiegati di serie B. Quindi devono uscire dal campo di vigenza del Decreto Legislativo 29/1993, il quale ha fatto del Preside il “datore di lavoro” che può addirittura licenziarli.
La Scuola italiana, in 150 anni, ha trasformato una Penisola di analfabeti in una delle maggiori potenze industriali del Pianeta. Il che significa che funziona, come dimostra anche il successo dei laureati italiani all’estero.
Funziona ancora, la Scuola italiana, malgrado gli sforzi della classe politicante per distruggerla e per farla somigliare a un ridicolo Paese dei Balocchi, a un baraccone che premi gli ignoranti e non trasmetta conoscenze a nessuno.
Chi progetta una Scuola così, mero “progettificio” in competizione aziendalistica con altri “progettifici”, aspira ad una società in cui le conoscenze restino patrimonio dei pochi, e in cui i pochi comandino sui molti; di modo che i molti siano molto “competenti” ad eseguire ciò che i pochi sapienti ordinano e dispongono. Una massa di “competenti” dalle menti vuote ed esecutive.
Chi sostiene una scuola di questo tipo ha una concezione della democrazia molto simile a quella che la volpe ha del pollaio.
Al contrario, se vogliamo che la Scuola sia un’istituzione volta a colmare le differenze sociali e a liberare i più deboli dalle disuguaglianze, dobbiamo far sì che ritrovi la sua vocazione di scholé nel senso che gli antichi Greci davano a questa parola: un tempo libero dal lavoro e dedicato all’amore per la conoscenza, pura e disinteressata. Perché sono conoscenza, arte, poesia, le conquiste che rendono umana la vita degli umani.
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