I ragazzi italiani rischiano. E con loro l’Italia stessa. La diffusissima dispersione scolastica colpisce soprattutto Calabria, Campania, Sardegna e Sicilia. Ma non illudiamoci troppo sulle altre regioni dello Stivale. La “dispersione esplicita” dopo la Terza Media è massima (28-30%) in Sardegna, Campania e Sicilia; altissima (23-28%) anche in Toscana, Lombardia, Emilia-Romagna, Piemonte, Liguria, Abruzzo. In Umbria, ove la situazione è meno grave, si attesta sul 16%.
Ancor più impressionanti i dati sulla “dispersione implicita”: l’insuccesso dell’istruzione di quei giovani che, pur ufficialmente diplomati, non hanno raggiunto i requisiti minimi per inserirsi nella società (un terzo dei ragazzi del Sud, 35.000 all’anno in tutta Italia). Dopo 13 anni di Scuola costoro non sanno ragionare, scrivere efficacemente, leggere per comprendere, parlare in modo da farsi capire, e neppure ascoltare con concentrazione interagendo con l’interlocutore. Un esercito di diplomati semianalfabeti, le cui conoscenze (e competenze) sono solo sulla carta (quella del diploma ottenuto).
Difficoltà, d’altronde, sperimentate dai docenti ogni giorno, persino nei Licei più prestigiosi delle grandi città. Quali le cause? Molteplici, e ben riconoscibili: degrado sociale dovuto ai cambiamenti legati al consumismo; crisi delle figure genitoriali; frantumazione dei valori etici di riferimento; dilagare dei nuovi media; mancanza di un’idea condivisa su cosa può e deve diventare un essere umano.
In una parola: neoliberismo. La Scuola, benché “comunità educante” (ovvero isola di cultura e di libertà di pensiero nella quale si persegue un’ideale di conoscenza disinteressato), negli ultimi 30 anni ha seguito — per precise scelte politiche — tutti i disvalori del neoliberismo, a cominciare dal lessico: “debiti” e “crediti” formativi invece di valutazioni didattiche; “Dirigenti Scolastici” al posto dei Presidi; “successo” formativo invece di crescita culturale; “offerta” formativa invece di percorsi educativi; e poi “pianificazione”, “piani”, “imprenditorialità”, “innovazione”, “misurazione” (tramite “test” “standardizzati” e “oggettivi”) di “competenze” (non nel senso latino di “andare insieme” verso la conoscenza, ma nel significato del verbo anglosassone “to compete”, “competere sul mercato”).
Una orwelliana neolingua che maschera lo scivolamento sulla via di facilismo e 8 politico. Lo prova il livello medio degli studenti che da qualche anno sbarcano alle Scuole Superiori (i cui professori hanno spesso l’impressione che siano usciti dall’esame di Terza Media anche con voti alti senza aver acquisito nessuna conoscenza basilare in italiano e matematica, per non parlare di storia, geografia e scienze). Stiamo sfornando generazioni di cittadini che non conoscono l’abbiccì del cittadino moderno, critico, emancipato da ignoranza e pregiudizi.
Il massimo dell’assurdo lo si raggiunge con il diffuso (in tutta Italia) malaffare dei diplomifici privati che vendono (letteralmente) titoli di studio non conquistati con lo studio ma acquistati per denaro (fenomeno studiato dal sindacalista Paolo Latella). Del resto, se nel mondo neoliberista tutto è merce e si compra, e la cultura (cioè il docente) vale poco (vista la paga dei docenti stessi e l’ingresso gratuito ai musei) qualcuno può scegliere la scorciatoia: copiare le verifiche, fare il furbo, o addirittura comprare per qualche migliaio di euro quei titoli che costerebbero studio e fatica. Insomma, meglio ignoranti e furbastri che colti, onesti e perdenti come quegli “sfigati” dei “prof”.
Che speranza stiamo lasciando ai numerosi ragazzi bravi, seri, intelligenti, che vorrebbero imparare e conoscere? Nessuna, appunto. Ed ecco dal Giappone una novità (che in realtà nuova non è, ma che i Giapponesi hanno avuto il merito di definire e denunciare, dandole un nome): il fenomeno degli “Hikikomori”, adolescenti che vivono chiusi nella propria stanza da letto. In Italia sarebbero un centinaio di migliaia (un quinto di quelli giapponesi). Intelligenti, bravi a scuola, si sentono diversi, non compresi, e si chiudono in se stessi. Introversi e sensibili — con una figura paterna emotivamente non molto presente — spesso si isolano per aver subito atti di bullismo, e per questo, pur andando bene a scuola, giungono talora ad abbandonarla. Internet e tecnologie non c’entrano: questa patologia esisteva anche decenni fa.
Che cosa stiamo facendo noi adulti per aiutar loro e tutti i giovani italiani? Non abbiamo forse solo accettato il modello di società imperante senza minimamente obiettare alcunché? Se vogliamo aiutarli, dobbiamo aiutare la Scuola a regalar loro speranza nel futuro, considerandola un’istituzione (e non un’azienda), da valorizzare anche attraverso l’incentivazione economica degli insegnanti, per il valore educativo che ogni centesimo investito in cultura porta con sé. Bisogna urgentemente stanare la disperazione dei giovani, “furbi” o depressi che siano; dar loro speranza; coltivare e curare con amore queste generazioni infragilite dai nostri errori. Il nostro amore per loro, da solo, può smascherare qualsiasi disvalore mascherato coi valori del mercato e dello sfruttamento.
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