A quattrocento anni dalla morte di Shakespeare, le sue opere ed i suoi personaggi sono più che mai attuali; non solo, si può tranquillamente affermare che egli sia un vero maestro di leadership e che nelle sue storie ci siano tutti i segreti della gestione aziendale.
Nei lavori di William Shakespeare, infatti, è possibile individuare i differenti ruoli che un leader può assumere e le diverse competenze per esserlo poiché ci aiuta a vedere l’impresa come possibile palcoscenico dei grandi conflitti dell’animo umano, il luogo deputato ad una ritrovata coscienza tragica della vita e ci propone i suoi drammi come modelli comunicativi per leader.
Ma chi è veramente un leader e quali caratteristiche deve possedere per essere definito tale?
Il termine leader deriva dal verbo inglese to lead e significa, letteralmente, colui che guida. Il leader è colui che sa guidare un gruppo di persone, colui che conduce una squadra al raggiungimento di determinati obiettivi.
Il vero leader è colui che possiede alcuni tratti caratteriali ed alcune competenze trasversali che sono da ritenersi indispensabili per ricoprire con successo un ruolo manageriale.
Alcuni dei personaggi Shakespeare falliscono proprio perché basano la loro autorità sul diritto di nascita, perché convinti che potere ed autorità siano legati indissolubilmente alla persona. Riccardo II era convinto che possedere il titolo di re fosse sufficiente, affinché tutti gli obbedissero, mentre Antonio era convinto che il suo potere non derivasse da Roma, ma che risiedesse in lui e che potesse dunque essere usato a suo piacimento. Questi due personaggi, così come accade ad alcuni che al giorno d’oggi occupano ruoli manageriali, credevano che il fatto di possedere un titolo garantisse loro sufficiente autorità per governare.
Sia Riccardo II, sia Antonio erano convinti che la leadership potesse essere individualizzata e separata dall’organizzazione. Entrambi saranno destinati all’umiliazione e alla morte.
Ci sono poi Riccardo III, MacBeth e Coriolano che credevano che l’autorità non fosse un diritto divino, ma che dipendesse dalla capacità di manipolare e conquistare il potere; tutti e tre usarono l’arma del terrore per conquistare e mantenere il potere: Riccardo III conquistò il trono con un omicidio, creando in questo modo un clima di sfiducia; Macbeth, spinto dall’ambizione, uccise il Re al quale era stato precedentemente fedele; Coriolano governò punendo e, alla fine, rimase solo.
Tra tutti i personaggi shakespeariani, l’unico vero leader di successo è Enrico V, che si rese conto che per diventare un buon re doveva imparare il modo per esserlo e per riuscirci si rivolse ai suoi futuri sudditi.
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Se dunque proviamo a leggere Shakespeare in chiave manageriale, scrive stateofmind.it, ci accorgiamo che Enrico V è un vero leader, perché capisce che non può fare nulla senza le persone che comanda, è un maestro nel management delle persone, è un esempio perfetto di ciò che si intende per leadership di successo: un gruppo disparato di persone (i nobili), intorno ad un re, per una causa comune (la conquista del territorio francese).
Se consideriamo il re come il leader, i nobili come il team di persone che lavora insieme, la nazione come l’azienda e la Francia come un importante progetto, capiamo perché ogni manager dovrebbe leggere Shakespeare, che può essere considerato un vero maestro di leadership contemporanea.
Ma leader si nasce o si diventa?
Molti studiosi delle teorie della personalità sono fautori della prima ipotesi e sostengono che determinate qualità e tratti caratteriali si hanno sin dalla nascita e cinque sarebbero le doti: l’intelligenza, il predominio, la fiducia in se stessi, il livello di energia e la conoscenza delle attività.
Secondo la teoria dello stile comportamentale, invece, leader si diventa, non si nasce: questo è l’opposto del tradizionale assunto dei teorici dei tratti. Di conseguenza, il comportamento del leader può essere sistematicamente perfezionato e sviluppato.
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