Non so a voi, ma anche a me capita che, uscendo di casa, controlli sempre la presenza del cellulare.
Magari dimentico le chiavi, ma il cellulare no.
Vuol dire che è diventato parte di me, di noi, è diventato noi.
Ci lamentiamo che i ragazzi vivano in sua funzione, ma poi anche noi, che non siamo nativi digitali, non possiamo farne a meno. E, se abbiamo un momento di pausa, lo tiriamo fuori senza pensarci su.
Una volta, in una vecchia trattoria di Trastevere, mi colpì un piccolo cartello: “Non abbiamo Wi-Fi, parlate tra di voi”.
In realtà, ad una verifica, la rete c’era, era garantita, ma nei gestori ad un certo punto era venuto spontaneo questo invito a parlarsi.
Con una domanda: se noi togliamo dai nostri dialoghi le cose estemporanee, di cosa in realtà parliamo, quando parliamo?
Altra bella domanda.
Quindi, da un lato c’è lo strumento che dovrebbe facilitare la comunicazione, e, si spera, la reciproca comprensione, dall’altro resta da chiarire la domanda sul contenuto: di che parliamo quando parliamo?
Per cui, il messaggio del cartello era chiaro: anzitutto, guardatevi negli occhi. Perché gli occhi sono sempre, come si diceva, lo specchio delle nostre anime. Per cui, di tanto in tanto, mi permetto di suggerire un esercizio a tutti, anzitutto ai ragazzi: guardatevi allo specchio, per carpire il vostro cuore, oltre la moda della pura apparenza oggi imperante.
Non solo i ragazzi, ma anche tutti noi viviamo la perdita del cellulare quasi come una amputazione.
La famiglia, anzitutto, ma anche la scuola sa che il tema è delicato.
Perché da un lato abbiamo chi propone di non dotare i figli dei cellulari prima dei dodici anni, e dall’altro alcune scuole ne hanno vietato l’uso in classe. Pretendendo il deposito al mattino in portineria.
Resta la questione se sia meglio il divieto o la fatica della mediazione educativa.
Con sullo sfondo la solita domanda: è inutile parlarne male se sono gli adulti, in primis, a farne un abuso, tanto da averlo sempre in mano, anche quando si è a tavola, o in compagnia, o con i figli.
In passato la scuola doveva limitarsi all’istruzione, oggi non può fare a meno di curare prima ancora lo sfondo educativo.
Non solo per la crisi di tante famiglie, ma prima ancora perché oggi non ci sono più evidenze etiche, verità assodate, certezze sociali e ideali.
Siamo, come si è detto, in una realtà “fluida”, sempre in divenire, e il suo primo compito è quello di aiutare le famiglie a crescere con equilibrio i propri figli.
Per la questione dei cellulari, questo compito lo potremmo definire di disintossicazione, rispetto alla frenesia dei nostri tempi a causa dell’overdose tecnologica.
Per quanto riguarda gli aspetti didattici, sappiamo che metà circa dei nostri diplomati fa fatica a comprendere bene un testo, a scrivere in modo corretto, ad eseguire calcoli mentali, a concentrarsi per più di sette minuti su un tema, ad orientarsi in viaggio senza l’app. Hanno inoltre minori capacità mnemoniche, perché persiste sullo sfondo l’idea che possa bastare, appunto, una qualche app. Credendo di avere così tutto lo scibile a portata di mano.
Mentre così non è. Perché ogni informazione va poi mediata, masticata, pensata, messa in relazione, incrociata, discussa. E resa, sul piano scientifico, falsificabile, cioè soggetta ad una verifica logica e sperimentale.
Non solo. Facciamo fatica a scrivere in corsivo, e senza correttore automatico.
Per quanto riguarda il contesto scolastico, l’abuso di chat tra genitori ha creato non pochi problemi di rapporto non solo con i docenti, ma anche tra famiglie e tra ragazzi.
Infine, anni fa ho dovuto introdurre un limite di reperibilità, perche molte famiglie pretendevano l’immediatezza delle risposte dalla sera alla mattina. Ne è nato il diritto alla disconnessione.
Ma, sullo sfondo, l’aspetto critico del tutto ne è stato il venir meno della fiducia nei confronti dei docenti e della loro professionalità, e la pretesa di sindacabilità su ogni aspetto della vita di classe.
Ma già che si parli del diritto alla disconnessione ha presupposto l’esistenza di un obbligo alla connessione. Il che non deve essere scontato, per tutti.
Insomma, la scuola come comunità educante, come viene definita, va intesa e pensata, in molti suoi aspetti, anche come comunità disintossicante.
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