A chi o a cosa serve il docente esperto? Ciò che finora sappiamo è che, nel 2032, avremo i primi docenti esperti.
Docenti (8mila circa) che avranno frequentato con profitto 3 cicli triennali di formazione (dunque 9 anni in totale) gestiti da una Scuola di Alta formazione per l’istruzione, e saranno stati selezionati al suo interno come i più meritevoli.
Riceveranno questo titolo, saranno premiati con un bonus di poco più di 5mila euro, e saranno vincolati nella scuola in cui si trovano in quel momento per 3 anni.
Vien da chiedersi in primo luogo: a quale bisogno, a quale esigenza della scuola risponde questa figura?
Perché se si tratta, ad esempio, di una urgenza, aspettare dieci anni significa proiettare nel futuro un ritardo spaventoso.
Si intende creare, come era stato preannunciato con la Buona Scuola, un middle management nella scuola italiana: ovvero affiancare al Dirigente Scolastico e al DSGA altre figure di gestione dotate delle competenze necessarie per organizzazioni complesse?
Non sembra che sia così, se è vero, come è vero, che il docente esperto rimarrà legato alla scuola di appartenenza ma senza possibilità di incarichi extra didattici.
Dunque il docente esperto dovrebbe essere, nell’intenzione dei suoi creatori, un riferimento solo per la didattica. Uno solo per ogni scuola, stando ai numeri previsti. Ma se è così, allora vien da chiedersi se 30 ore annuali per 9 anni, uniformi e omologate, siano il migliore viatico.
Insomma mentre da anni ci dicono che bisogna superare i confini tra educazione e istruzione formale e informale; mentre aderiamo, in modi a volte anche fantasiosi, alla certificazione e al riconoscimento di competenze tra sistemi educativi e luoghi della formazione disparati (dalla formazione in azienda ai titoli stranieri); mentre accade tutto ciò, per gli insegnanti esiste una sola fonte di emanazione dei saperi (questa Scuola di Alta Formazione) che decide pure tempi, modi, incentivi e premi.
Perché se il middle management da un lato e i docenti esperti di didattica dall’altro sono esigenze reali della scuola, e probabilmente lo sono davvero, allora a Viale Trastevere dovrebbero fare ciò che si fa in qualsiasi altro Ministero: preparare concorsi interni. Oltre tutto con un enorme vantaggio rispetto a ciò che accade in altri settori dello Stato: e cioè che la scuola raccoglie una quota importante di lavoratori, come si direbbe all’estero, over-skilled.
Ci sono cioè moltissimi insegnanti che non utilizzano, perché non sono utili, nel proprio lavoro ordinario, una parte delle conoscenze, abilità, competenze acquisite durante il corso degli studi, o nelle precedenti esperienze lavorative. E che potrebbero invece mettere a disposizione della scuola se avessero altri, o ulteriori, ruoli.
Sono abbastanza sicuro che, in ogni parte d’Italia, per ciascuna area disciplinare, dalla inclusione all’orientamento, dalla didattica disciplinare alla gestione finanziaria e delle risorse umane, nella scuola italiana ci siano docenti in grado di impartire lezioni, piuttosto che riceverle, nella fumosa Scuola di Alta formazione che dovrebbe plasmarli.
Ciò metterebbe fine anche a una anomalia che è solo della scuola: l’unico pezzo di Stato in cui non esiste carriera interna. O in cui l’unica via al salto di carriera è cambiare, di fatto, carriera, cioè diventare Dirigente scolastico.
Ovviamente, ma questo il Ministero lo sa benissimo, mi auguro, questo dibattito non c’entra nulla con, e non sposta di una virgola, la questione salariale. Questione già seria da anni, ma che la combo pandemia/guerra ha reso, per molte famiglie, tragica. Insomma abbiamo sicuramente molti difetti, ma siamo ancora in grado di pensare due cose allo stesso tempo.
Alessandro Porcelluzzi
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