Un docente precario veniva sospeso dal servizio per venti giorni per aver pubblicato su Facebook post offensivi riferiti al Ministro dell’Istruzione dell’epoca (Lucia Azzolina).
Il docente impugnava la sanzione disciplinare di fronte al Giudice del lavoro, sia per profili di carattere formale (l’istruttoria era stata condotta dal Dirigente Scolastico e non dall’Ufficio Procedimenti Disciplinari), sia perché le espressioni contestate dovevano essere ricondotte al diritto di critica costituzionalmente garantito, chiedendo l’annullamento della sanzione o -in subordine- la sua riduzione in base al principio di proporzionalità.
Diritto di critica e lesione dell’immagine
Nel caso in specie il Tribunale di Palmi (cui il docente si era rivolto) aveva il difficile compito di individuare il discrimine tra diritto di critica – quale libera manifestazione del pensiero – e la lesione dell’immagine della P.A. prodotta dalle offese ingiuriose.
Sotto questo profilo, il Tribunale ha richiamato il consolidato principio secondo cui la divulgazione di fatti ed accuse, ancorché vere, obiettivamente idonee a ledere l’onore o la reputazione del datore di lavoro, esorbita dal legittimo esercizio del diritto di critica, qualora si traduca in una condotta che non trovi adeguata e proporzionale giustificazione nell’esigenza di tutelare interessi di rilevanza giuridica almeno pari al bene oggetto dell’indicata lesione.
Il ruolo dell’educatore
Il Tribunale ha stigmatizzato la condotta del docente, osservando che è possibile attribuire se possibile, ancora maggiore gravità a quelle condotte poste in essere sui social network, proprio perché facilmente accessibili e visibili a quegli stessi alunni affidati alla cura dell’insegnante.
Peraltro, secondo il Tribunale, “il ruolo di “educatore” non può essere di certo ricondotto e/o circoscritto alla mera durata temporale della prestazione lavorativa.
Si è insegnanti anche al di fuori della scuola
In questo senso, ”la condotta del docente deve risultare irreprensibile anche al di fuori dello stretto contesto lavorativo”.
Non può non considerarsi infatti che alcuni comportamenti posti in essere dell’insegnante possono avere conseguenze sotto il profilo dell’apprendimento, formativo ed anche imitativo degli alunni, in virtù dell’innegabile ascendente esercitato dal docente sugli allievi.
Non si tratta di un principio nuovo
Che gli insegnanti debbano tenere un comportamento corretto anche fuori del luogo e dell’orario di lavoro era già stato più volte affermato.
Si pensi al caso della docente di Torino – filmata durante degli scontri tra manifestanti e polizia in un caso ampiamente ripreso dagli organi di informazione – e successivamente destituita dal rapporto di impiego per “atti che siano in grave contrasto con i doveri inerenti alla funzione” (art. 498, lett a) D. Lgs. n. 297/1994).
Anche in quell’occasione, la Corte di Appello di Torino, con sentenza n. 240/2020, aveva ritenuto legittimo il provvedimento dell’Amministrazione, osservando che – anche al di fuori del rapporto di lavoro – il dipendente è tenuto a mantenere un comportamento tale da non compromettere irrimediabilmente il rapporto fiduciario, ledendo gli interessi morali e materiali del datore di lavoro.
La diffamazione sui social
Sulla scia del principio di diritto enunciato, il Tribunale di Palmi ha ritenuto che “le espressioni impiegate possono essere ritenute lesive del vincolo fiduciario caratteristico del rapporto di lavoro, in quanto dotate di indubbia “valenza diffamatoria”.
Infatti, “l’esercizio del diritto di critica incontra un limite nella tutela dell’onore, della reputazione e del decoro del datore di lavoro, beni-interessi che costituiscono riflesso di diritti fondamentali della persona tutelati quali valori essenziali della dignità dell’uomo”, considerando inoltre come la Rete sia un veicolo di diffusione potenzialmente illimitato per sua stessa natura, volto ad amplificare la comunicazione ben oltre la cerchia di amici di un determinato utente.
Sulla base di tali considerazioni, con sentenza n.1460/2022, il Tribunale di Palmi ha respinto il ricorso, ritenendo legittima e non sproporzionata la sanzione comminata e condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali.