Dire che l’autogestione non è cosa buona né giusta, e venir puniti per questo: è quanto rischia di accadere al professor A. C., docente di un istituto superiore della capitale.
Ricostruiamo i fatti: il 13 dicembre 2018 una circolare della Dirigente (reperibile sul sito della scuola) annuncia l’autogestione studentesca «regolarmente autorizzata dal Dirigente Scolastico». Pare che il Collegio dei Docenti non sia stato nemmeno sentito sull’argomento: eppure la normativa attribuisce unicamente al Collegio dei Docenti il potere di deliberare «in materia di funzionamento didattico del circolo o dell’istituto (…) nel rispetto della libertà di insegnamento garantita a ciascun docente» (D.L. 16 aprile 1994, n. 297, Parte I, titolo I, Capo I, art.7, comma 2, lettera a).
“Autogestione” o caos?
Pertanto due giorni dopo, sul proprio profilo Facebook, il professore scrive un post molto critico nei confronti della scelta dirigenziale (dovuta probabilmente al legittimo desiderio di evitare un’occupazione); definisce l’autogestione «il vociare chiassoso di sciami di studenti per scale e corridoi e cortile, con gruppi che si godono il caffè al bar (della scuola), altri che stazionano fuori a fumare e ascoltar musica» (definizione con cui, probabilmente, concorderebbe il 90% dei docenti italiani che hanno avuto a che fare con iniziative consimili). E prosegue, ironico: «Bisogna smetterla noi insegnanti all’antica di pensare all’ora di lezione, bisogna diventare animatori trasversali (…). La Scuola dev’essere (…) giardino d’infanzia (…) liberalmente aperto (…) a tutte le merci tecnologiche o culturali che le grandi aziende, ormai partner espliciti dell’“atto educativo”, giudicheranno eccellente vendere ai diversi partecipanti». Un atto d’accusa non alla Dirigente, ma a quella che il Professore identifica con un’autentica deriva cui la Scuola italiana sta andando incontro: quella dell’aziendalizzazione e della subordinazione al dio mercato.
Il 27 dicembre una nuova circolare convoca il Consiglio d’Istituto per il 3 gennaio 2019: secondo punto all’ordine del giorno “valutazioni e decisioni in merito alla lettera pubblicata dal professore”. Il quale, il 2 gennaio, invia al Consiglio d’Istituto una diffida a discutere l’argomento, in quanto esso non rientra tra le competenze del medesimo (come dimostra l’articolo 10 del D. Lgs. 297/94). Sta di fatto che il 14 gennaio il Professore riceve una contestazione di addebito disciplinare, nella quale, in base all’art. 69 del D. Lgs 150/09, si contesta al docente di aver dato “informazioni inesatte, fortemente denigratorie dell’immagine” della Scuola e della Dirigenza; gli si imputano inoltre “giudizi severi, assoluti, apodittici”; lo si accusa di aver denigrato l’istituto in cui lavora, compromettendone l’immagine per il futuro; di aver mosso “critiche indimostrate, prive di riferimenti a fatti ed episodi concreti”; di aver diffuso “notizie non veritiere, denigratorie, diffamatorie e lesive dell’immagine dei docenti, studenti e dell’Istituzione Scolastica”.
La notizia finisce sui giornali
Il 17 gennaio sul quotidiano Repubblica appare una lettera dell’insegnante, in cui, fra l’altro si chiede: «È possibile che un docente che difende il sacrosanto diritto allo studio debba essere messo sul banco degli imputati per questo?».
Arrivano i primi attestati di solidarietà: il quotidiano La Verità pubblica un articolo in difesa del Professore: «Nessuna punizione allo scolaro negligente e svogliato che non apre i libri, ma al professore che s’impunta perché vorrebbe che gli studenti imparassero l’italiano, la storia e la matematica». Il docente pubblica su Facebook questo articolo, e l’ex Ispettore Tecnico del MIUR Maurizio Tiriticco (“Mastro Ticchio” su FB) lo commenta con queste parole: «So bene che hai ragione. Il tuo post è corretto per il solo fatto che descrive una realtà nota a tutti gli studenti e a tutto il personale della scuola. Non hai rivelato un segreto d’ufficio!».
Chi ha ragione?
Il 19 gennaio, tuttavia, la Dirigente Scolastica scrive una lettera a “La Verità”, affermando che il docente non ha ricevuto soprusi, ma solo «un provvedimento disciplinare per le gravi e lesive affermazioni pubblicate sul più diffuso social media». Il notissimo giornalista Mario Giordano le risponde perentoriamente: «Noi abbiamo letto per intero l’articolo del professore e non vi abbiamo trovato nessuna grave e lesiva affermazione. A meno che lei non pensi sia grave e lesivo il voler insegnare. In tal caso, ci sentiremmo di solidarizzare con il professore punito per la grave colpa di amare le lezioni più dei bivacchi».
Chi ha ragione? Non sarà eccessivo comminare una sanzione a un insegnante che ha rivendicato il diritto allo studio? Ai posteri — nonché ai nostri lettori — l’ardua sentenza. Vi terremo informati sugli sviluppi.