Dicerie, pettegolezzi e avvisi poco edificanti su di lei nella bacheca della scuola: sono queste le accuse che una docente ha fatto a delle sue colleghe e alla coordinatrice. Stanca di questo atteggiamento poco consono al ruolo e al luogo, l’insegnante si è rivolta al giudice del lavoro ai fini dell’accertamento di una condotta di mobbing nei suoi confronti, con annessa richiesta di risarcimento danni per il comportamento tenuto dalle colleghe.
Come scrive Il Sole 24 ore, la Corte d’Appello di Roma ha chiarito che, dal punto di vista oggettivo, il “mobbing” dev’essere considerato come un “susseguirsi di attacchi frequenti e duraturi”, oltre a “soprusi” da parte dei superiori gerarchici (in questo caso si tratta di mobbing verticale) o da parte di altri colleghi di lavoro (mobbing orizzontale).
Di conseguenza, si può parlare di mobbing se i comportamenti sono ripetuti, insistenti e finalizzati proprio a compromettere la capacità lavorativa di un soggetto e la fiducia in se stesso, sino a provocare le dimissioni. Si parla, infatti, di “dolo del soggetto agente, ovvero la coscienza e la volontà di nuocere o infastidire o, comunque, svilire l’altrui persona”.
In questo specifico caso, la docente, secondo la Corte d’Appello, non ha subito mobbing.