In questi giorni l’opinione pubblica si sta occupando del caso della docente di Varese che è stata accoltellata da uno studente 17enne lo scorso 5 febbraio. Un caso simile è avvenuto in una scuola di Abbiategrasso maggio: anche in quel frangente una docente, Elisabetta Condò, è stata accoltellata da un alunno.
Il giornalista e scrittore Massimo Gramellini, che spesso si è occupato di violenza sui docenti nella sua rubrica “Il caffè di Gramellini”, pubblicata su Il Corriere della Sera, ha fatto un paragone tra le due vicende, entrambe avvenute in Lombardia. “Rivedendo il suo feritore in tribunale, Elisabetta Condò lo ha abbracciato; mentre Sara Campiglio, risvegliandosi dall’anestesia, per prima cosa ha voluto sapere come stava il ragazzo che l’aveva mandata in ospedale“, ha esordito.
Ecco la spiegazione di Gramellini: “Non siamo in presenza di insegnanti permissive: anzi, pare siano state colpite proprio perché si rifiutavano di esserlo. E allora come si spiegano i loro gesti di attenzione nei confronti degli accoltellatori? Con un concetto talmente fuori moda che quasi ci si vergogna a scriverlo: la vocazione. Le due professoresse coltivano il senso di una missione da compiere, che consiste nell’occuparsi e preoccuparsi della formazione dei ragazzi a loro affidati. E questo senso non viene mai meno, nemmeno dopo un’aggressione”.
Ed infine una precisazione sul caso della docente accoltellata ad Abbiategrasso: “Elisabetta Condò non ha dimenticato l’offesa, al punto che si è costituita parte civile. Ma a costituirsi è stata la signora Condò, vittima di un reato. La professoressa Condò rimane invece saldamente concentrata sulla sua missione e in quell’abbraccio c’è tanta speranza, per chi la vuole vedere”.
A vederla in maniera opposta è il docente Enrico Galiano, che crede che non bisogna parlare del lavoro del docente come una missione: “‘Il vostro lavoro alla fine è una missione’.. Praticamente questa frase ha raggiunto il prestigioso status di luogo comune, proprio come ‘Non c’è più la mezza stagione’ e ‘I giovani non son più quelli di una volta!’. Possiamo dirlo a gran voce, però? No, insegnare non è una missione”, ha esordito.
“Missione è una parola pericolosa. Sapete perché? Perché evoca tutto un mondo diverso da quello che è – o almeno dovrebbe essere – l’insegnamento: la dici e subito ti saltano in mente immagini di preti nelle favelas, suore nelle zone di guerra, Robert De Niro che porta carichi più pesanti di lui nel fango mentre in sottofondo corre il Gabriel’s oboe di Ennio Morricone. Insomma: un lavoro che fai per gratuita completa dedizione. Come un immolarsi, un sacrificarsi. Allora qui sorge spontanea una domanda: direste mai che fare il chirurgo è una missione? Che lo è fare l’avvocato? L’ingegnere?”.
“Eppure, anche l’insegnante ha bisogno di un percorso di studi altamente professionalizzante. Anche lui – o lei – deve accumulare anni di tirocini formazioni corsi ricorsi esami”.
“Perché missione è una definizione che sposta questo lavoro così complesso dalla parte dei ‘lavori che sono pagati ma potrebbero essere anche gratis’. Di quelle cose che fai quasi per un anelito di volontarismo. O di quelli che un po’ ti pagano e un po’ no, quasi come un riconoscimento simbolico. Che è abbastanza vero, eh: se andiamo a vedere la media degli stipendi degli insegnanti italiani rispetto a quelli degli altri paesi europei, rischiamo davvero il coccolone. È così che l’insegnamento si innesta nell’immaginario. Le parole sono importanti e il fatto che si usi sempre questa – ‘missione’ – quando si parla dell’insegnamento significa che, semplicemente, non abbiamo capito cos’è e cosa fa un insegnante”.
“Ormai non passa settimana senza che un professore venga aggredito da un genitore, ma di questo malcostume non importa niente a nessuno. In primis, duole dirlo, all’opinione pubblica: non vedo dibattiti infiammati sui social, né una reale percezione di che cosa sia diventata una comunità che non ha più freni inibitori nel mettere le mani addosso a medici e maestri, le due categorie davanti alle quali la generazione di mio nonno si toglieva il cappello”, ha detto Gramellini qualche giorno fa.
“Non mi interessa neanche sapere la ragione che ha spinto il padre di una bambina della materna di Taranto, richiamato alla pugna dalla moglie che stava azzuffandosi con un’altra insegnante, ad avventarsi contro il preside, riducendolo come un boxeur dopo un combattimento in quindici riprese. In una società non autoritaria un preside può e deve essere criticato. Ma in una società autorevole non si dovrebbe mai varcare con tanta disinvoltura il confine che passa dalla critica alla maleducazione e dalla maleducazione alla violenza”.
“Da quando le regole sono state sostituite dalle suscettibilità, il parente di un ricoverato si sente autorizzato a gonfiare di botte una dottoressa del pronto soccorso solo perché, magari dopo dodici ore di turno, gli ha dato una risposta un po’ scortese. E il genitore di uno studente può picchiare un preside senza avvertire l’enormità del gesto, dal momento che, ai suoi occhi, chi lavora nella scuola fa un mestiere troppo antiquato e malpagato per meritarsi un minimo di rispetto”, ha concluso.
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