“La scuola è il posto in assoluto più sicuro per un minore, assai più che la sua stessa famiglia”: a ricordarlo, numeri e casi alla mano, èVittorio Lodolo D’Oria, medico esperto nelle malattie professionali degli insegnanti, in particolare a seguito del burnout.
In un articolo su LabParlamento, il medico sostiene che “stando unicamente al numero di procedimenti penali avviati, non v’è proprio partita: il 99% dei casi riguarda la famiglia, mentre un esiguo numero chiama in causa la scuola (poche centinaia di casi nel giro dell’ultimo decennio)”.
“Se poi andiamo a confrontare la gravità e l’efferatezza dei crimini compiuti in famiglia, bastano pochi nomi a ricondurci alla realtà dei fatti: Annamaria Franzoni, Veronica Panarello, Martina Patti, Alessia Pifferi etc, per un totale di 472 casi di genitori (60% le madri e 39% i padri e 1% patrigni) che hanno ucciso i loro figli negli ultimi vent’anni.
Vi sono anche i figli che uccidono i genitori come ci ricorda la cronaca di mezzo secolo: Doretta Graneris, Pietro Maso, Benno Neumair, Erika e Omar, Nadia Frigerio, Ferdinando Carretta etc”.
“A scuola, invece, non abbiamo un solo episodio di ‘sangue’ da parte degli insegnanti, mentre cominciano a fare capolino vicende allarmanti come quella dell’accoltellamento della docente di Abbiategrasso da parte di uno studente”.
Eppure, ogni anno vengono accusate, e poi sottoposte a giudizio, alcune decine di docenti, in prevalenza, maestre per presunti maltrattamenti a scuola: “il fenomeno è aumentato di 14 volte in soli sei anni dal 2014 al 2019, e non ha nessun riscontro nei Paesi occidentali”, sottolinea Lodolo D’Oria, che subito dopo sostiene che in queste condizioni diventa “doveroso arginare il dilagante e debordante intervento dell’autorità giudiziaria nella scuola con telecamere nascoste”.
Quindi il medico sostiene che gli interventi dell’autorità giudiziaria – carabinieri, ma anche poliziotti, finanzieri, vigili urbani e polizia postale – non sono “professionalmente adeguati, appropriati, tempestivi, adeguati, commisurati all’urgenza, economici”. Perché, sostiene Lodolo D’Oria, “gli inquirenti (per lo più) non possiedono la necessaria preparazione educativo-pedagogica, né conoscono la differenza e gli obblighi che passano tra l’ambiente ‘familiare’ e quello ‘parafamiliare’”.
L’esperto aggiunge che “l’aumento drammatico” di indagini nelle scuole “è dovuto soprattutto ai metodi d’indagine particolarmente intrusivi (niente privacy), quindi facilmente manipolabili, infine gestiti da inquirenti non-addetti-ai-lavori. Questa la dinamica: i genitori denunciano le maestre alla autorità giudiziaria, e gli inquirenti piazzano le telecamere nascoste senza un limite di tempo prestabilito (ottenendo proroghe col solito pretesto di dover “cristallizzare il quadro indiziario”). Seguono indagini per svariati mesi (ma il pericolo per i bimbi non era grave e urgente? Evidentemente no!) e processi che durano interi lustri”. E spesso, infine, l’epilogo è favorevole al docente.
Chi invece sarebbe in grado di fare fronte ai possibili problemi docenti-alunni, con “responsabilità e competenze”, sarebbe il dirigente scolastico: secondo il medico, il preside garantirebbe “tempestività, sicurezza ed economicità. Bisogna impedire che il preside venga cortocircuitato da coloro (95% genitori e 5% colleghe) che vogliono sporgere denuncia, facendo invece in modo che il dirigente venga sempre attivato in prima battuta e l’autorità giudiziaria solo in caso di fallito intervento del primo, come avviene ad esempio nel Regno Unito”.
Secondo Lodolo D’Oria questo è “un grosso problema”, che riguarda gli “insegnanti di scuola dell’infanzia e primaria che sono finiti in questo tritacarne e hanno affrontato per tanti anni gogna mediatica, spese giudiziarie, risarcimenti, tentati suicidi, depressione, decessi per tumori da stress prolungato etc.”.
A titolo di esempio, l’esperto di burnout cita “il caso di Rivoli della settimana scorsa: 1.200 ore di intercettazioni, due gradi di processo, spese per giudici, avvocati, cancellieri, aule di tribunale etc, terminato con un’assoluzione. Chi paga ora le centinaia di migliaia di euro? Noi cittadini. E i circa 400 processi ancora oggi pendenti sugli insegnanti (di cui 15 sono suore addirittura accusate – falsamente – di aver bestemmiato)? Sempre noi”.
Vittorio Lodolo D’Oria punta il dito anche contro “il silenzio dei sindacati che, di fronte a questo attacco alla categoria professionale delle maestre, non si schierano risolutamente a difesa della loro salute, della loro professionalità, nonché della loro privacy violata da indagini con telecamere nascoste in barba all’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori”.
Si rivolge, quindi, al “ministro di Grazia e Giustizia, che aveva promesso una stretta sulle intercettazioni inutili, ridondanti e dannose”, perché restituisca “alla scuola quei problemi che trovano soluzione nell’ambito disciplinare con l’intervento tempestivo del dirigente scolastico”.
Quindi, Lodolo D’Oria chiede “al ministro dell’Istruzione e del Merito attenzione per la risoluzione immediata di questo fenomeno che si trascina, ingigantendosi, dal 2014. Restituire serenità alla categoria professionale delle maestre è un imperativo che non può essere rimandato e ulteriormente ignorato”.
Quindi, ritiene “che siano maturi i tempi a sottoscrizione di un protocollo d’intesa tra i due dicasteri”, Istruzione con Grazia e Giustizia, sullo stile Regno Unito, “che restituisca la gestione del fenomeno”, riconducendo “l’Italia ad un comportamento in linea coi Paesi occidentali”.
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