Cara Tecnica, vedo che sul sito raramente si parla del tema delle pensioni e del resto, a fronte dell’assoluta mancanza di novità (se non qualche elemento peggiorativo – vd. “Opzione donna”), tanto vale lasciare che se ne occupino sindacati e testate economiche o di settore.
Tuttavia ritengo che sul pensionamento dei docenti valga la pena di riflettere, per le implicazioni sociali, ma anche strettamente professionali e didattiche di cui, a livello statale, si dovrebbe tener conto per gestire un “capitale umano” che è la PRIMA VERA RISORSA della scuola. Il punto di partenza può provenire dall’articolo, pubblicato sulla “Tecnica” in data 14/04/2023, dal titolo “Docenti in pensione, richieste aumentate del 24%…”, dal quale emerge che circa 30.000 docenti sono “in fuga dalla scuola”, dato al quale bisogna aggiungerne almeno altri due e cioè: 1) L’età media dei docenti in Italia è fra le più elevate d’Europa (oltre 50 anni) 2) Ben 83 docenti su 100 sono donne (circa il 67% alle superiori).
Ora, basta incrociare i dati per cogliere che le motivazioni individuate dai sindacati mi sembrano francamente generiche e fumose: gli episodi di violenza, che pure si stanno intensificando, “fanno notizia”, ma fortunatamente non sono (ancora!) la quotidianità, mentre la burocrazia è pervasiva in ogni ambito lavorativo. Bisogna andare al concreto: una docente di, mettiamo, 55 anni (che, quindi, ne ha almeno altri 10 di servizio davanti a sé) quale condizione familiare vive, nella maggioranza dei casi? Nella migliore delle ipotesi si accinge a diventare nonna o già lo è, nella peggiore deve accudire una o più persone anziane in famiglia (sì, bella la longevità, ma poi?…). A volte tali condizioni si sovrappongono o si susseguono a ruota, accompagnandosi anche agli acciacchi personali, magari modesti, ma incipienti.
Anche le docenti più motivate, ancora ricche di energia, generose ed entusiaste nel lavoro, non possono che avere “la testa altrove”, dovendo sopperire a tutte le carenze del welfare, sia a carico dei piccoli (se non si aiutano le giovani mamme, il famoso “inverno demografico” diventerà ancora più rigido) che degli anziani.
A fronte di questo vissuto personale, si vorrebbe magari trovare un po’ di soddisfazione nel lavoro, che invece presenta talmente tante problematiche incancrenite NOTISSIME, NOTE, MISCONOSCIUTE, che non vale nemmeno la pena di elencarle (le recenti esternazioni di Crepet e il contributo di Giovanni Morello “Non gli abbiamo mai fatto mancare niente” del 4/06/23 la dicono lunga), ma un po’ di litanìa recita: edilizia fatiscente, classi numerose, famiglie poco collaborative, burocrazia, programmi tanto mirabolanti quanto obsoleti, superfetazione di “progetti integrativi”, ecc.. ecc..
A questo punto, che fare? L’unica speranza – anche a fronte della distanza abissale che ormai ci separa dall’orizzonte sociale e culturale delle nuove generazioni – è la FUGA: in parole povere, quando io ho cominciato ad insegnare (era una classe 5^ Geometri), avevo 26 anni e i miei studenti 18, ora loro ne hanno sempre 18 e io 60, con tutto quello che ci è passato in mezzo! Per tornare al punto di partenza, Lodolo D’Oria fa riferimento alle malattie professionali stress-correlate, ebbene, mi fa specie che, tra i “lavori usuranti”, prerequisito per l’APE Sociale, sia annoverato quello delle maestre di asili nido e di scuola materna (che pure hanno le loro fatiche, ma tanto quanto i minatori?), mentre per i docenti, che ormai sono poco più che “animatori turistici” un po’ patetici, nessuno si ponga il problema di un serio ricambio generazionale.
Monica Quetore
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